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Chi ha “ucciso” Vasco Rossi: la serie “Il Supervissuto” racconta una traiettoria unica

Un quasi monologo in cinque puntate. Dimensione mitica e divisione campale su quella che resta una storia unica, la traiettoria spettacolare dell'"unico credibile nel ruolo di rocker in Italia" secondo Fabrizio De André

Spettacoli - di Antonio Lamorte

19 Ottobre 2023 alle 14:39 - Ultimo agg. 26 Gennaio 2024 alle 16:21

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Chi ha “ucciso” Vasco Rossi: la serie “Il Supervissuto” racconta una traiettoria unica

Chi è che è rimasto a volere la vita spericolata, una vita come Steve McQueen e non una vita tranquilla, “with no alarms e no surprises”. C’è stato un momento in cui Vasco Rossi non c’era mai stato, era qualcosa di nuovo, qualcosa che faceva notizia. Prima dei concertoni, dei numeri da Guinness, dei record. Li ricorda “Il Supervissuto”, la serie in cinque puntate diretta da Pepsy Romanoff su Netflix che a sua volta ha celebrato una carriera maestosa, e non soltanto per i numeri, e il cui merito è quello di ripercorrere una traiettoria unica, il romanzo di formazione e le ore più buie dell'”unico credibile nel ruolo di rocker in Italia”, parole di Fabrizio De André, pronunciate ben prima che il Blasco, il Komandante, diventasse una questione di tifo.

Quasi un monologo, intervallato dagli interventi di collaboratori e compagni di viaggio e da preziose immagini di repertorio. Quasi un soliloquio quello di Vasco Rossi in questo prodotto in cui si è raccontato come mai in forma così esauriente. Senza alcun aspetto che non fosse già stato tramandato in decenni di articoli, interviste, speciali, documentari, aneddoti. Un difetto grosso così per alcuni recensori, forse che con uno sguardo più terzo il racconto sarebbe potuto scendere più a fondo, più nel rapporto con i fan, con la celebrità. Forse. Potrebbe anche non essere mai esistito questo progetto, scaturito dalle riflessioni della pandemia da covid-19, se non in questa forma. A goderne più di tutti probabilmente sono e saranno i fan più accaniti, sedotti ancora una volta dal mito che si racconta e si racconta decennio dopo decennio.

Gira intorno a questa dimensione mitica il grande affaire che ha accerchiato e che continua ad accerchiare Vasco Rossi, una divisione tra i fanatici che si sono tatuati frasi di canzoni, che lo hanno visto cento volte, possibilmente a ogni tour, e che non ammettono paragoni con qualsiasi altra esperienza live, che finiscono per intitolargli associazioni, squadre di calcetto, figli, che quasi intendono la musica come qualcosa che stia dentro l’universo del Blasco e non il contrario, e poi quelli che “anche basta”, che a prescindere lo hanno condannato, bisfrattato al paragone ai grandi del rock internazionale senza accorgersi di una genuinità spudorata soprattutto nel suo bildungsroman. Due schieramenti che hanno finito per nascondere una storia unica, offuscare una traiettoria speciale, che hanno “ucciso” in qualche modo Vasco Rossi.

C’è stato un momento in cui “Il Supervissuto” non c’era sempre stato. Ed è stato rottura, vero e proprio sconvolgimento, shock autentico. C’è praticamente tutto nella serie, che volontariamente o meno abbozza l’Italia attraversata da questa traiettoria. La stagione delle radio libere. La provincia Capitale morale della Nazione come in Tondelli. Bologna della contestazione di Andrea Pazienza. Sanremo e quelle due esibizioni rimaste nella storia del Festival: ai fanatici che sperticano record su record come a giustificare un gusto, è utile per ricordare che questa non è soltanto la storia di un vincente, che Siamo solo noi è l’inno a chi stava sotto, nascosto o fuori controllo, da un’altra parte rispetto al consenso. Nantas Salvalaggio scrisse di questo cantante su Oggi come di “un bell’ebete, anzi un ebete piuttosto bruttino, malfermo sulle gambe, con gli occhiali fumé dello zombie, dell’alcolizzato, del drogato ‘fatto’”.

E poi uno si stupisce se tutta la vicenda San Patrignano sia rimasta poco raccontata, quasi nascosta a più di una generazione, prima di esplodere in una brillante e fortunata docuserie Netflix. Vasco Rossi ha raccontato e riflesso un’epoca, soprattutto gli anni ’80. Quando venne arrestato l’unico protagonista della musica a fargli visita in carcere con la moglie Dori Ghezzi fu Fabrizio De Andrè. Ad ascoltare come il protagonista vivesse in quegli anni si coglie perché continuasse a sentirsi come un “Sopravvissuto”. Uno dei passaggi più toccanti è quello dedicato all’amico e chitarrista Massimo Riva, morto nel 1999 dopo un’iniezione di eroina, a 36 anni.

C’è il gossip, la famiglia, i social, gli ultimi dischi – certo non memorabili. Con ogni probabilità è strategica la scelta di non fare riferimento a quella grande bufala su “vascorossicheodiailsudnapolièuncesso” che continua a circolare da anni nonostante le tante smentite e pur nell’assoluta assenza di prove. C’è tutto o quasi insomma, una summa che sfiora il monologo spesso autocelebrativo ma che resta tutto sommato la produzione più immediata per cogliere questa storia enorme in una manciata di ore, che tratteggia come in “Dots and Boxes” come Vasco Rossi abbia cantato certe cose che soltanto lui, un personaggio del genere, un cantautore naturale mutuato al rock, alla vita spericolata e maledetta, poteva raccontare. Fu una sommossa, un’offesa presa sul personale dai fan dei Radiohead quella cover di Creep – sicuramente rivedibile – pubblicata nel 2009. Il tifo, appunto, ma sta succedendo perfino con la guerra in Medio Oriente. Forse è quello che sappiamo fare meglio, altro che rock and roll.

19 Ottobre 2023

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