60 anni dalla tragedia

Disastro del Vajont, oltre 2mila vite spezzate via da 50mila metri cubi d’acqua

Alle 22 e 39 il Monte Toc franò nel bacino artificiale nuovo di zecca: su Longarone si abbatterono 50 milioni di metri cubi d’acqua. Una catastrofe figlia del connubio tra affari e politica

Cronaca - di David Romoli

7 Ottobre 2023 alle 16:00 - Ultimo agg. 9 Ottobre 2023 alle 12:43

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Disastro del Vajont, oltre 2mila vite spezzate via da 50mila metri cubi d’acqua

Il monte, quello che alle 22,39 del 9 ottobre 1963 franò nel bacino artificiale creato da una ciclopica diga sul torrente Vajont, si chiama Toc. In dialetto friulano vuol dire Marcio: gli abitanti della valle sapevano da sempre, senza aspettare accademici e scienziati, quanto infido fosse il sottosuolo di quel monte. La frana provocò tre ondate: due lambirono Etro, con Casso uno dei due paesi ai lati della diga, provocando danni limitati.

La terza fu un’onda apocalittica di circa 50 milioni di metri cubi d’acqua che superò la diga e si abbattè su Longarone, a valle. Le vittime stimate furono 1910, tra cui 487 bambini, più 1300 dispersi. Un conto preciso però non fu possibile. L’onda d’urto dovuta allo spostamento d’aria fu il doppio di quella provocata dall’atomica su Hiroshima. Parecchie vittime furono letteralmente polverizzate. La diga invece resse ed è ancora lì, gelido monumento a una tragedia provocata dalla rapacità di una grande azienda, dalla corruzione del potere politico, dall’asservimento degli scienziati, dalla complicità di un giornalismo che continuò a negare, per il tramite di penne d’oro come Indro Montanelli, Giorgio Bocca e Dino Buzzati, dalla vanità di ingegneri come il capo progettista Carlo Semenza, allora il più importante costruttore di dighe in Italia, e il geologo Giorgio Del Piaz, il luminare che aveva garantito la sicurezza della grandissima opera. Insistettero anche contro ogni evidenza.

Si erano affezionati al progetto: la diga a doppio arco più alta del mondo, il gioiello dell’Italia del boom. Ancora oggi è l’ottava diga più alta, la sesta nella classifica di quelle a doppio arco. Se l’era immaginata, già dal 1940, Giuseppe Volpe, conte di Misurata, proprietario e presidente della Sade, Società Adriatica di Elettricità. Oggi quel nome non dice niente, all’epoca era il potentissimo gigante nella produzione di energia elettrica, la definivano “uno Stato nello Stato”. Volpe sapeva bene come muoversi nei rapporti col potere politico. Era stato un pezzo grosso del regime, ministro delle Finanze, governatore della Tripolitania, per quasi un decennio presidente di Confindustria. All’indomani del 25 luglio si scoprì antifascista, tentò la fuga in Svizzera, fu arrestato e subito liberato per intercessione diretta del maresciallo Rodolfo Graziani.

La Sade aveva chiesto l’autorizzazione per l’immensa opera già il 22 giugno 1940 senza ricevere risposta. Nel caos seguito all’8 settembre riuscì a ottenere la sospirata autorizzazione dal Consiglio superiore dei lavori pubblici anche in assenza del numero legale. Cominciava male, proseguì peggio. I lavori iniziarono nel 1956. I terreni necessari furono acquistati dai valligiani per quattro soldi, molto al di sotto del valore di mercato. La Sade, spalleggiata dalla Dc al governo, aveva uno strumento di ricatto potentissimo: in caso di rifiuto di vendere poteva far espropriare i terreni in nome della “pubblica utilità”. Acquistò a 18 lire l’ettaro contro un prezzo medio che stava tra le 100 e le 150 lire. La giovane cronista da Belluno dell’Unità, Tina Merlin, ex partigiana, iniziò a seguire la vicenda proprio per raccontare, nel silenzio generale, la rapina della Sade. Presto si accorse che c’era di molto peggio.

Il Monte “Marcio” era marcio davvero: smottamenti, boati, scosse sismiche terrorizzavano la popolazione di Etro e denunciavano la minaccia in agguato. La Sade costruì una nuova strada verso Etro e la Valcellina, in sostituzione di quella precedente destinata a finire sommersa dal bacino artificiale. Fu necessario scavare molte gallerie, adoperare mine in quantità e la già precaria stabilità nel Toc ne risentì subito. Consultato dalla Sade il geologo austriaco Leopold Muller concluse che la situazione era molto più a rischio di quanto non ammettessero i pezzi grossi dell’accademia come Dal Piaz e il geofisico Pietro Caloi. I segnali di movimento tellurico si moltiplicarono: una frana provocò la prima vittima. Tina Merlin denunciò il rischio sull’Unità: la denunciarono per aver diffuso “notizie false e tendenziose”. Al momento del processo la Corte avrebbe impiegato solo pochi minuti per assolverla.

Il 4 novembre 1960 la “notizia falsa e tendenziosa” si materializzò in una nuova frana che stavolta piombò nel bacino. Precipitarono 700mila mq di terra. Provocarono un’onda altissima ma che non fece vittime. Due tecnici, tra cui Edoardo Semenza, il figlio del progettista della diga, furono incaricati di ulteriori accertamenti: scoprirono che la situazione era molto più grave di quanto non avesse stabilito lo stesso Muller. L’austriaco richiamato andò a quel punto oltre: avvertì che la frana in corso non poteva più essere frenata. Si poteva solo provare a gestirla. La Sade andò avanti lo stesso e anche di corsa. La spinta verso la nazionalizzazione dell’energia elettrica, che avrebbe portato all’assorbimento dell’azienda nell’Enel, era nell’aria. Bisognava concludere i lavori e arrivare al collaudo in tempo per strappare un risarcimento miliardario, in aggiunta ai cospicui sovvenzionamenti statali dei quali Sade già godeva.

I tecnici dell’azienda stabilirono che la costruzione di una galleria di sorpasso sarebbe probabilmente bastata a mettere in sicurezza la diga anche a fronte della frana che era a quel punto certa. Era solo questione del quando, non più del se. Sade incaricò anche il direttore dell’Istituto di Idraulica di Padova, Augusto Ghetti, di costruire un modello in scala della diga, realizzato a Nove, vicino Vittorio Veneto, per testare la minaccia. Poi però fornirono materiale ghiaioso molto diverso da quello del Monte Toc e furono quei test addomesticati a essere presentati ai rappresentanti del governo, peraltro più che compiacente.

I test di Nove dissero però chiaramente che l’invaso non avrebbe dovuto superare i 700 metri, altrimenti in caso di frana il rischio di “conseguenze dannose” sarebbe stato inevitabile. Fino a minacciare conseguenze “manifestamente impressionanti” con l’invaso a massima capienza, 722,5 metri. Sade, nel marzo 1963, decise comunque di portare l’invaso a 715 metri per poi svasare, molto lentamente, in modo da controllare l’accelerazione della frana. In realtà la diga era ormai dell’Enel, dopo la nazionalizzazione del dicembre 1962, ma i dirigenti di Sade erano passati tutti in forze all’ente nazionale, continuavano a gestire la situazione e in ballo c’era sempre il risarcimento, le cui dimensioni dipendevano dai tempi del collaudo.

Il 9 ottobre, quando la montagna cedette, lo svaso era ancora in corso, il bacino colmo d’acqua. La frana e l’ondata che ne conseguì spazzarono via Longarone e colpirono alcuni comuni adiacenti. Il giorno dopo Indro Montanelli scrisse parole di fuoco: non contro i dirigenti della Sade-Enel ma contro la giornalista dell’Unità che aveva tentato invano, con articoli su articoli, di evitare la tragedia: “Sciacalli che il Partito comunista ha sguinzagliato, mestatori, fomentatori d’odio”. Anche Giorgio Bocca, arrivato a Etro subito dopo la catastrofe, scrisse che “questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura”.

Bocca però, anni dopo, ebbe il buon gusto di scusarsi. Montanelli no. Si giustificò affermando che aveva ritenuto opportuno aspettare il processo prima di lanciare accuse. Il processo si concluse, due settimane prima che scattasse la prescrizione, con l’accertamento della responsabilità umana e due condanne, per un funzionario di Enel-Sade e per uno del ministero dei Lavori pubblici: 5 anni al primo, 3 anni e 8 mesi al secondo, entrambi con un condono di 3 anni.

Nei giorni seguenti la tragedia Tina Merlin fu intervistata da una tv francese, in Italia però fu però proibito trasmetterla. Raccontò la vicenda in un libro che nessuno volle pubblicare fino al 1983. Per l’occasione la giornalista scrisse una nuova Introduzione: “Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica. Un connubio che legava strettissimamente quasi tutti gli accademici illustri al potere economico che a sua volta si serviva del potere politico”.

7 Ottobre 2023

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