La tragedia del Vajont

La tragedia del Vajont denunciata anni prima da Tina Merlin su L’Unità

“Tutto è stato fatto dalla natura”, assicurava la firma del Giorno. “La diga è stata costruita a regola d’arte”, diceva la firma del Corriere. Ma solo Merlin, giornalista dell’Unità, aveva denunciato il pericolo: era tutta colpa dell’uomo

Editoriali - di Redazione Web

7 Ottobre 2023 alle 17:00

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La tragedia del Vajont denunciata anni prima da Tina Merlin su L’Unità

Pubblichiamo qui di seguito uno stralcio de “Il racconto del Vajont”, l’orazione civile che l’attore e regista Marco Paolini ha dedicato al disastro nel 1993.

1. Longarone non c’è più

Io il 10 ottobre andavo in seconda elementare. Mi sveglio. Mattina sette e mezzo. Mia mamma piange. (…) Mi ricordo il giornale radio: «Longarone non c’è più». Longarone? Non avevamo mica dei parenti noi a Longar… Aspetta, no, a­spetta… Ma certo, ero un bambino ma io Longarone me la ri­cordavo… Eh sì che me la ricordavo: per me all’epoca Longarone era una stazione sulla ferrovia delle vacanze. Perché noi andavamo in vacanza sempre nello stesso posto e quindi io le stazioni le avevo imparate a memoria. Andare in su, venir in giù, sempre la stessa strada, le stazio­ni le sapevo tutte… Guarda, diobono, a scendere le stazioni si chiamavano:
Calalzo di Cadore…

Tutun-tutun-tutun… poi c’era Sottocastello, che c’è un’altra diga, ma il treno fermava nianca…
Tutun-tutun-tutun… poi c’era Perarolo…
Tutun-tutun… Ospitale…
Tutun-tutun… Termine…
Tutun-tutun…. Castellavazzo…
Tutun-tutun… Longaroneeeeeee

Ecco la valle della sciagura: fango, silenzio, solitudine e capire subito che tutto ciò è definitivo; più niente da fare o da dire. Cinque paesi, migliaia di persone, ieri c’erano, oggi sono terra e nessuno ha colpa, nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. E ci vogliono queste sciagure per capirlo!… Non uno di noi moscerini vivo, se davvero la natura si decidesse a muoverci guerra…

Belle parole, potenti… Bellissime! Eh, non sono mica mie… Queste sono le parole di uno dei giornalisti più importanti della nostra Repubblica: Giorgio Bocca, su «Il Giorno», venerdì 11 ottobre 1963. Mica solo lui. Gli inviati speciali sul luogo della sciagura sono i giornalisti più importanti del paese. Arrivano la notte stessa, quasi mattina, spaventati come formiche sotto la diga, perché non è mica facile anche solo arrivarci, non è facile anche solo capir dove sei… È solo fango qua… Non sanno neanche più dove mettere i piedi, perché gli tiran sassi, anche, ai giornalisti...«Via de qua! State pestando la mia casa!»…«Via coi piedi che gh’èi morti a cavar su…» E in mezzo a questi si­gnori ce n’è uno di Belluno, e la diga è là, sul confine tra il Ve­neto e il Friuli, allora per questo signore è diverso… La storia, lui che è di Belluno, la sente più degli altri. E scrive, ispirato, sul suo giornale:

Un sasso è caduto in un bicchiere, l’acqua è uscita sulla tovaglia. Tutto qua. Solo che il sasso era grande come una montagna, il bic­chiere alto centinaia di metri, e giù, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature mane che non potevano difendersi. E non è che si sia rot­to il bicchiere; non si può dar della bestia a chi lo ha costruito perché il bicchiere era fatto bene, a regola d’arte, testimonianza della tenacia e del coraggio umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro. Anche dal punto di vista estetico.

Dino Buzzati, è lui lo scrittore, sul «Corriere della Sera», venerdì 11 ottobre 1963. La diga del Vajont era ed è un capolavoro. Era ed è Come sarebbe «era ed è»? Sì, per forza. Perché la diga del Vajont non era crollata co­me pareva al primo momento. No, figurati! Era là, ben salda. Come ha detto Buzzati.

2. Se vuoi diventar grande, leggi, libri

L’estate del 1964 il tratto di ferrovia che passava per Lon­garone era risistemato. E così noi abbiamo ricominciato ad andare in vacanza sem­pre nello stesso posto… Fino a diciassette anni, finché non mi sono divincolato dal giogo fatale delle vacanze di famiglia, io sono andato in vacanza sempre nello stesso posto. E allora vai, in treno, col naso incollato sul finestrino…
Tutun-tutun… Perché nel ‘64, noi, la macchina non ce l’a­vevamo…
Tutun-tutun… E poi vuoi mettere il treno? Il treno è tran­quillo, rilassante, lui va e tu ti abbandoni, chiacchieri, leggi, guardi… Il treno non ha pretese di visione totale, non ha certezze assolute…
Tutun-tutun… Il treno ha una visione laterale della vita: se sbagli lato, sei fregato…
Tutun-tutun… Con il naso incollato al finestrino…
«È questa la valle?»
«No, ‘spetta…»
Tutun-tutun…
«È questa la valle?»
«No, ‘spetta…»
Tutun-tutun…
«È questa la valle?»
«No, ‘spetta…»
«Ma quando arriva?»

«Longaroneeeee!»
Quando il treno arrivava in stazione, per un minuto la ve­devi: la diga bianca in mezzo alle montagne nere. E ti monta­ van dentro due sentimenti: il sentimento delle mamme e il sentimento dei papà. Il sentimento delle mamme si chiamava: «Povera Longa­ron, povera Longaron, povera Longarone». Era un sentimen­to per fondamenta: fondamenta senza muri che venivano su in mezzo alla ghiaia del Piave che aveva riempito tutta la valle, e a noi bambini avevano spiegato che sotto quei sassi c’;erano ancora i morti, perché non li avevano trovati tutti. E allora io avevo questo sentimento disciplinato a nome «Povera Longa­ron, povera Longaron, povera Longarone».

Però io, bambino, non potevo fare a meno di avere anche un altro sentimento: quello dei papà, per la diga. Perché era rimasta su. E io, bambino, pensavo: «Ma insomma… la monta­gna è cascata, ma la diga ha tenuto! Il suo dovere l’ha fatto. Se fosse cascata la diga, sarebbe andata peggio, no?». E allora un po’di consolazione ti resta dentro. Con questa consolazione qua si diventa grandi. Anche per­ché poi i maschi… Guardali, a una certa età dello sviluppo, noi maschi, tutti, davanti a una diga, tutti là: impiantati. Come davanti a una portaerei, là! Guardaci, noi maschi, a una certa età dello sviluppo, davanti a una portaerei… Sempre tutti là: impiantati! E non c’entra niente che poi da grande diventi an­che pacifista, e magari fai l’obiettore di coscienza. Non c’en­tra niente. E che a un certo stadio dello sviluppo, se vedi la portaerei, qualcosa dentro lo senti… E che si intuisce che là dentro c’è qualcosa, no? E cosa c’è? C’è il segreto del progresso. (…)

E come fai a crescere? Leggi libri! Questo mi dicevano sempre: «Vuoi venire grande presto? Leggi libri». Ogni viaggio in treno un libro: I ragazzi della via Pal, Bello! Letto. Altro viaggio: Ventimila leghe sotto i mari. Bello! Letto. Altro viaggio, altro libro. I pirati della Malesia, Le tigri di Mompracem, Sandokan. Bello! (…)
Un anno, alla stazione di Calalzo, suona la campanella, ar­riva il treno. (…) avevo letto tutti i libri che mi ero portato… «E adesso, per il viaggio di ritorno, come faccio?» Edicola della stazione. Giallo Mon­dadori: mai piaciuti. Urania: già letto. Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont. Vajont? Mi interessa? Non c’è altro… «E in partenza dal pri­mo binario…» Dai, dai, compra il libro, parte il treno… Tu­tuntutun… Leggi il libro… Sulla pelle viva…
Tutun-tutun… Come si costruisce una catastrofe… Tutun-tu­tun…
Tutun-tutun… Come si costruisce una catastrofe? Ma non han­no costruito una diga?
Tutun-tutun… E la diga non era costruita bene? A regola d’arte?
Tutun-tutun… La diga del Vajont era ed è un capolavoro…
Tutun-tutun… Nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uo­mini non ci hanno messo le mani…
Tutun-tutun… Tutto fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente…
«Longaroneeee!».

3. Tina Merlin: a volo d’angelo

Ma la diga non era costruita bene, a regola d’arte? Come si costruisce a regola d’arte… che cosa? Una diga o una catastrofe? Ma chi è che ha scritto ‘sto libro? Tina Merlin. E chi è Tina Merlin? È Giorgio Bocca? È Dino Buzzati? Chi è Tina Merlin, eh? Leggi il risvolto di copertina, che te lo dice. Giusto. Allora, ‘spetta, fame veder… «Tina Merlin, nata a Trichiana (Belluno) nel 1926. Morta nel ‘91. Ha svolto attività giornalistica dal 1951 lavorando per trent’anni all’“Unità”». Ah! Eh, eh, eh!… Capìo tutto. Eh, dai… Per piacere!

«L’Unità» negli anni Sessanta non era un quotidiano, era un bollettino di partito! E in Val del Piave vendeva sette copie: sei copie per gli iscritti al Pci, una copia per l’osteria di Piero Corona, che aveva fatto la resistenza e quindi la comprava. Dopo la nascondeva sempre sotto il «Gazzettino», ma il suo dovere intanto lo faceva ogni giorno. «Corrispondente locale dell’“Unità”» Ma fammi un piacer… E non è finita. Senti cosa dice ancora il risvolto di coperti­na: «Ha partecipato alla resistenza come staffetta partigiana nel bel­lunese». Allora ho capito tutto sul serio! Perché io sapevo tutto dei partigiani, fin da piccolo… Per­ché mi hanno tirato su bene a me. Io lo sapevo che i partigia­ni durante la guerra stavano in montagna, sulle malghe, in gruppo. Eh, ciò, per forza… Perché in montagna da soli, di notte… Fa paura…
Però ci vuole qualcuno che faccia il collegamento tra una squadra e l’altra, tra una malga e l’altra… E chi ci mandi? Una donna, no? (…)

Eccolo là il libro della Merlin. Ecco che cos’è: non è un’altra storia, è la stessa storia ma da un altro punto di vista. Non il punto di vista degli specialisti, delle formiche… Niente a che vedere con quelli che arrivano dopo la tragedia, spaventati, e non sanno neanche dove mettere i piedi perché gli tirano i sassi. No, questo è il punto di vista del falco. Prospettiva a volo d’angelo. Sguardo di chi le cose invece le ha viste da prima. Dall’alto. Da sopra. E infatti la Tina non ti racconta la storia della «Povera Lon­garon, povera Longaron, povera Longarone» che è stata rasa al suolo, cancellata. Naturalmente, giustamente, è diventata protagonista della tragedia. La Tina Merlin non ti racconta tanto quella storia lì. No.

Lei non parla dei protagonisti: parla dei comprimari. Tina racconta la storia di altri due paesi. Due paesi che non sono stati distrutti, ma solo lesionati. Quindi ce li siamo dimenticati. Anche perché da sotto la diga, dalla stazione di Longarone, quei due paesi mica si vedevano.
ci stavano sopra, sulla sponda del lago dietro alla diga, dalla parte friulana del Vajont. E poi sono due paesi che non puoi neanche metterli sui libri di scuola, perché hanno un nome così sconveniente eh non si può nemmeno chiamarli in pubblico senza commettere turpiloquio: Erto e Casso. A scelta nell’ordine.

7 Ottobre 2023

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