Il saggio

Chi è Bayo Akomolafe, lo scrittore nigeriano che viaggia nell’incertezza

Nelle sette lettere indirizzate alla figlia, il filosofo nigeriano s’immerge nell’enigma dell’essere, invitandoci a rinunciare alle convinzioni consolidate e al sistema binario che governa il mondo

Cultura - di Filippo La Porta - 21 Settembre 2023

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Chi è Bayo Akomolafe, lo scrittore nigeriano che viaggia nell’incertezza

Dove si forma oggi un pensiero vivo, stillante, capace di trovare un linguaggio nuovo? Soprattutto ai margini dell’ex Impero, oltre i confini di un Occidente sempre più esausto. È il caso di Bayo Akomolafe, un filosofo nigeriano con formazione etnopsichiatrica che scrive in inglese, e dello straordinario Queste terre selvagge oltre lo steccato. Lettere a mia figlia per far casa sul pianeta (Exorma, trad. e cura di F.O. Dubosc).

Come un babalao, sacerdote della religione arcaica yoruba, Bayo inventa uno stile personalissimo, fatto di affabulazione riflessiva e densità metaforica, in cui, per fare un solo esempio, le montagne sono “anziani con la barba bianca che conversano…”. Sette lettere alla figlia, in cui ripensa criticamente la modernità (senza rifiutarla) e i suoi miti, primo fra tutti quello di una casa come “eternità secolarizzata” entro un mondo conquistato dalla tecnologia. Difficile rendere pienamente conto della ricchezza di temi e suggestioni. Proviamo a seguirne l’asse centrale.

Le lettere alla figlia vanno lette come una ricerca di casa sapendo, paradossalmente, che la nostra casa non è mai esistita, dato che stiamo sempre nel mezzo. O meglio, come leggiamo nella prefazione dell’amico Charles Eisenstein, la “casa”, la destinazione, che non va cercata in un tempo lineare, è da sempre molto distante e molto vicina. Bayo ci mostra come si può stare a proprio agio nel mondo anche nella persistente mancanza di casa. Di educazione cattolica, resta affascinato da sant’Agostino ma poi avviene una abiura: il paradiso agostiniano consiste infatti in una purificazione contro la vita, in una liberazione dalla carne (corrotta, infestata dalla colpa). Contro il grande filosofo cristiano mobilita perfino Homer dei Simpson, che al paradiso di plastica Lego, privo di polvere e in cui nessuno si fa male, preferisce il nostro mondo carnale, polveroso, dove si invecchia e si muore, e dove “il fatto che i nostri figli crescano rende speciale il tempo con loro”.

Qui intravediamo una risposta laica “alta” all’enigma dell’essere. Se nel paradiso di plastica senza rischi tutto si incastra, non è prevista l’erranza, allora a quella immunità incontaminata preferiamo il nostro “reame molliccio, confuso”. Per l’autore non conta tanto la destinazione, la luce finale, quanto lo spazio di luce e tenebre tra due punti: “il mentre non potrebbe essere un approdo quanto la fine?”. E ancora, citando la preziosa arte giapponese del kintsukuroi (frattura attiva di ceramiche per ripararne i pezzi con una lacca d’oro): l’infranto diventa una condizione generativa.

Le lettere si possono utilmente usare come antidoto ai veleni del libro di quel generale, “del cui nome non voglio ricordarmi”, direbbe Cervantes: il mondo sublunare che abitiamo è da sempre “al contrario” – o, direbbe Bayo, da sempre “balla” – poiché in esso nessuna cosa rimane ferma e disciplinata come vorremmo, nulla si congela al punto di fissarsi nella permanenza dell’essere: “la polvere ci fa posto mentre ci ricorda che non è cosa nostra e che non possiamo possederla per sempre”. La modernità attuale invece pretende di costruire luccicanti metropoli senza polvere e ci promette una liberazione, del tutto illusoria, dal rischio, dal limite, dal corpo, dall’impermanenza, dal dolore stesso, in un mondo patriarcale, colonizzato dalla tecnica (cui Bayo contrappone la “epistemologia femminista”).

C’è un passaggio che trovo più problematico. Da una parte Bayo ci invita ad accettare la fluidità, l’identità polimorfica, il “palinsesto di colori e di corpi” che è sua figlia e ogni essere umano, superando qualsiasi essenzialismo o ingannevole binarismo (ci sono pagine affascinanti sulla analogia di visione tra religione yoruba e meccanica quantistica: per entrambe la realtà è indeterminata); insomma i giochi non sono mai fatti, le forme non sono date e anzi gli “ostacoli” sono inviti a cambiare forma. Dall’altro ci ricorda che il neoliberismo esalta quella fluidità, incoraggia le persone a cambiare identità a piacimento (magari comprando il volto virtuale di un avatar), ci costruisce un business. Nella postmodernità tutto è metamorfico, flessibile, riadattabile, dalla mobilità estrema del lavoro alla identità individuale vista come kit di opportunità: la libertà irresponsabile del consumatore non conosce limiti! Però “l’elasticità delle cose non è infinita”, la materialità delle cose ci oppone una resistenza.

Come se Bayo ci dicesse: va bene, accettiamo gioiosamente (potremmo dire “nietzscheanamente”) il flusso del divenire, ma senza rinunciare alla costruzione di identità più durevoli, senza illuderci di abolire l’imperfezione e il conflitto. È vero, in natura accade che un albero possa cambiare sesso, come l’albero di tasso maschio che all’improvviso comincia a generare bacche, ma bisognerebbe far convivere la cognizione che non ci sono cesure nette tra le cose con la consapevolezza del limite e della finitudine; la mentalità prelogica, mistica delle culture ancestrali con la malinconica saggezza dell’esistenzialismo moderno.

Forse la lettera più bella è quella intitolata “Abbracciare i mostri”. Dobbiamo accogliere i mostri, perché “alterano le nostre purezze” e “rinnovano il mondo”, e in particolare Lilith la madre dei mostri, alterità ribelle e assoluta, che ci permette di aprire uno “spazio generoso in cui la logica narrativa viene riformulata in termini queer”. Dunque, “rinunciare alla pretesa di controllo e imparare a giocare”.

Bayo ci invita all’immaginazione utopica: se il mondo resiste all’idea di nature fisse e stabili questo può rivelarci altri modi di agire e collaborare con il mondo. In una ardita sintesi scrive che “la queerness quantistica decostruisce l’identità e disfa il progetto spazio-temporale che ci vedrebbe arrivare a casa tutti d’un pezzo”. No, a casa non torniamo integri: in un certo senso “essere a casa è una preparazione all’esilio”. E ancora: “Questa danza di esilio e casa, di dentro e fuori, di futuro e passato” – e aggiungo di identità e fluidità (abbiamo bisogno di entrambe) – ci spinge a trovare nuove affinità “con le piante, le montagne e altri viventi diversamente umani”.

21 Settembre 2023

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