Il nuovo Pd

“Il problema del Pd non sono gli ex Dc ma i post-comunisti”, intervista ad Alfredo D’Attorre

«Entro un anno si aprirà una contraddizione fra la maggioranza e parte significativa del suo elettorato: sulle questioni economiche e fiscali. Noi dobbiamo farci trovare pronti con un progetto di governo alternativo e solido»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

24 Agosto 2023 alle 13:30

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“Il problema del Pd non sono gli ex Dc ma i post-comunisti”, intervista ad Alfredo D’Attorre

L’attualità di Mario Tronti nella costituzione di un pensiero politico di sinistra. Nel “nuovo PD”L’Unità ne discute con Alfredo D’Attorre, membro della segretaria nazionale del Partito democratico con l’incarico di responsabile dell’Università.

Cosa ha rappresentato Mario Tronti per la cultura politica di sinistra?
Credo sia stato uno degli intellettuali che si è sforzato fino alla fine di riconoscere la specificità irriducibile della sfera politica – o del “politico” per dirla con un linguaggio filosofico a lui caro – rispetto ad altri ambiti dell’attività umana. Può sembrare un dato ovvio, ma non lo è affatto in un’epoca in cui prevale la tendenza di filosofi, scrittori, registi e intellettuali di varia natura a giudicare i fatti politici in modo “immediato”, secondo le categorie intellettuali ed estetiche del proprio ambito, senza il riconoscimento della specificità funzionale della politica e dei meccanismi peculiari che ne regolano il corso. Anche per questo, fino agli ultimi anni, ho avvertito sempre l’impulso di leggere e confrontarmi con quello che scriveva, pur non essendo sempre d’accordo con le sue posizioni, né con quelle teoriche né con quelle più strettamente politiche. Ma in lui si avvertiva sempre lo sforzo vivissimo di cogliere il nucleo di senso della contingenza politica, e di farlo nel concreto, non in modo astratto, mantenendo allo stesso tempo un ancoraggio solidissimo alle sue categorie filosofiche di fondo. In questo cercava davvero di mettere atto la lezione di Hegel, per il quale la vera filosofia è sempre scienza del concreto. Mi mancheranno le sue analisi e mi mancheranno anche i nostri incontri a San Macuto, alla biblioteca della Camera e del Senato, dove spesso, ancora negli ultimi mesi, mi capitava di incrociarlo.

Scrive Michele Prospero: “È con Occhetto che invece l’amalgama esplode, quando si afferma un impianto più sensibile al lascito rivoluzionario dell’Ottantanove francese…”.
Sarebbe ingiusto scaricare tutto sulle spalle di Occhetto, che si trovò a gestire un passaggio storico di straordinaria difficoltà, ma con il passare degli anni mi sono convinto anch’io che il modo in cui è stato realizzato il superamento del Pci sia alla base di diverse difficoltà che la sinistra ha affrontato nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Sul piano teorico, il punto dirimente è stata la rimozione di una cultura storicista, abituata a cogliere la continuità dei processi e l’importanza delle radici, con una visione nuovista tutta protesa alla ricerca di cesure e palingenesi. C’entra molto ovviamente la difficoltà di elaborare un evento gigantesco come il crollo del socialismo reale. Ma, a distanza di oltre 30 anni, possiamo riconoscere che l’istinto di sopravvivenza ha portato a imboccare quelle che poi si sono rivelate delle scorciatoie: dal rifiuto di fare i conti con la socialdemocrazia europea all’inseguimento del modello “democratico” americano, dall’innamoramento per il maggioritario all’esaltazione della rivoluzione giudiziaria di “Mani Pulite”, dall’idea del partito-movimento al cedimento alla visione neo-liberale dell’autoregolazione del mercato. Mi ha colpito un brano del celebre confronto televisivo con Occhetto nel 1994, ritrasmesso in occasione della recente scomparsa di Berlusconi. A un certo punto, il Cavaliere si rivolgeva al suo sfidante e gli diceva: “Senta Occhetto, ma se adesso dite di essere diventati liberali e moderati, perché le persone dovrebbero votare per voi e non per l’originale?”. Continuo a pensare che Berlusconi non sia stato esattamente un liberale e moderato, ma lì coglieva un elemento reale di debolezza e inautenticità nel riposizionamento dei suoi avversari, che avrebbe inciso a lungo nella vicenda della Seconda Repubblica.

I nodi irrisolti della svolta post-’89 giungono fino alla nascita Pd?
Sì. A differenza di altri, che come me vengono dall’esperienza del Pds-Ds, non penso che la tara genetica del Pd sia stato l’incontro con i cattolici e con il centro popolare. Anzi, credo che lì ci fosse in nuce la possibilità di rivitalizzare, in un nuovo contesto storico, uno dei punti più alti dell’eredità togliattiana e berlingueriana: l’idea della collaborazione fra cattolicesimo democratico e tradizione social-comunista come perno e punto di tenuta della democrazia repubblicana. Il punto è che il nuovismo anti-storicista, la subalternità all’anti-politica e l’assenza di un pensiero economico alternativo al fondamentalismo neo-liberale, che hanno segnato il superamento del Pci, hanno poi inciso pesantemente anche nel modo in cui è stato pensato e costruito il Pd. Come dico spesso ai miei compagni, il principale problema del Pd non è stato rappresentato tanto dagli ex-democristiani, quanto dalla funzione svolta da diversi dei post-comunisti.

Questa discussione ha diritto di cittadinanza nel “nuovo Pd” di Elly Schlein?
Penso proprio di sì. Nel Pd di oggi molti, a partire dalla segretaria, sono – come si dice oggi – “nativi democratici”, ma un grande partito può piantare radici solide nella società solo se esercita la memoria e riesce ad attingere, rielaborandolo sempre di nuovo, al patrimonio storico-culturale da cui proviene. Peraltro, nella tradizione del cattolicesimo democratico e del movimento operaio, e in particolare nel loro dialogo, ci sono molti elementi per sorreggere anche una moderna cultura dell’ambiente e dei diritti, in una chiave sociale, comunitaria e personalista, evitando derive individualiste e neo-liberali. Fuori dal Pd ci sono già fondazioni e centri culturali, sia di area cattolica che sindacale, che lavorano in questa direzione, basta alzare lo sguardo.

Pensa che la battaglia sul salario minimo possa rappresentare un punto di svolta per il Pd?
Credo proprio di sì. C’è stata la capacità di individuare un tema che parla finalmente alla condizione materiale delle persone, e non solo all’orizzonte simbolico-culturale dei ceti urbani benestanti, e di costruire una proposta chiara, costruendo su di essa l’unità delle opposizioni. Ora si tratta di insistere sulla mobilitazione e di inserire il tema dentro una cornice più generale, che non può che riguardare il contrasto alla precarietà, il rilancio del welfare pubblico universalistico e il nesso fra giustizia sociale e progressività fiscale.

Non vede il rischio di una deriva movimentista e minoritaria?
No, se il. Dopo la torrida estate militante, ci attende un autunno movimento e la vivacità comunicativa vengono messi al servizio di una proposta politica strutturata che credo sarà caldo dal punto di vista sociale. Dovremmo unire l’attitudine a stare dentro le mobilitazioni con la capacità di rafforzare il nostro messaggio e la nostra visione di insieme. Ciò che deve distinguere un grande partito popolare dai movimenti è la capacità di “unire i puntini”, di mostrare come singole battaglie possano unirsi in una certa idea di Italia e in un progetto di governo coerente. E personalmente penso che abbiamo bisogno anche di un appuntamento pubblico impegnativo prima delle europee, per definire in concreto i tratti del nostro europeismo, del progetto di cambiamento che proponiamo per l’Unione europea e di come esso rappresenti la difesa più credibile e avanzata anche del nostro interesse nazionale.

Quali sono i temi su cui l’identità del “nuovo Pd” non appare ancora sufficientemente definita?
Approfitto per parlare di quello di cui sono chiamato a occuparmi direttamente io. Abbiamo riallacciato un confronto con le varie componenti del mondo universitario, credo proficuo. Ora mi batterò perché nei prossimi mesi i temi dell’istruzione pubblica diventino centrali, assieme a quelli del lavoro e della sanità, nel definire il profilo del nuovo Pd. Si tratta appunto di “unire i puntini”. L’idea di scuola e università che proponiamo, correggendo anche errori fatti dal centrosinistra negli anni passati, deve essere legata a una certa visione della dignità e della qualità del lavoro, della trasformazione dell’economia italiana, del modo in cui vogliamo stare nella competizione internazionale, oltre che di come intendiamo riqualificare la cittadinanza e la partecipazione democratica. E penso che anche su questo sia possibile iniziare a trovare punti di convergenza tra le opposizioni.

La sensazione è che la nuova segreteria sia riuscita finora a restituire fiducia a una parte di militanti ed elettori, ma non a intaccare il mare magnum dell’astensione. Non è questo un problema molto serio?
Sì, è il principale problema che dobbiamo affrontare, ma avrebbe richiesto doti soprannaturali risolverlo in quattro mesi… Riportare al voto una parte significativa degli astensionisti è una condizione imprescindibile non solo per ribaltare i rapporti di forza nel Paese, ma anche per contrastare il deperimento della democrazia. E per farlo bisogna diventare credibili per smontare la principale ragione per la quale ormai quasi metà degli italiani rischia di non votare più: l’idea che, chiunque vinca, le cose sui temi fondamentali non cambiano.

Serve investire più sull’identità del partito o sulla costruzione della coalizione?
È una falsa alternativa. Se rafforziamo il Pd e la sua identità, mettiamo il partito nelle condizioni di svolgere anche meglio, senza iattanza e nervosismi, il suo ruolo naturale di baricentro dello schieramento alternativo alla destra. La vicenda del salario minimo è emblematica da questo punto di vista.

Che tipo di opposizione serve nei prossimi mesi?
Nei prossimi mesi la principale opposizione che la Meloni dovrà affrontare sarà quella della realtà, a partire dai dati economici della prossima legge di bilancio. Una parte dell’elettorato che finora ha mantenuto un’apertura di credito verso il governo, perfino tra chi non ha votato per la destra, con l’idea di sperimentare l’ennesima novità, ora si aspetta i risultati. E la storia politica recente ci dice che la disponibilità di questa fascia dell’elettorato ad attendere l’esito delle sperimentazioni ormai non supera i due anni… L’opposizione deve essere intransigente sui principi, ma, a mio giudizio, non deve essere urlata né dare mai l’impressione di sottrarsi a un confronto costruttivo nell’interesse del Paese. Io credo che nel giro dei prossimi 12-18 mesi si aprirà un problema serio sulle questioni economiche e fiscali fra la maggioranza e parte significativa della sua constituency elettorale. Lì bisognerà farsi trovare pronti con un progetto di governo alternativo e solido. In uno scenario in cui se, come speriamo, la guerra in Ucraina sarà finalmente finita, la Meloni vedrà esaurirsi anche la rendita di posizione che spera di ricavare dal suo attuale fondamentalismo atlantico.

24 Agosto 2023

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