La sentenza

Risarcimento alle vittime dei nazisti, l’equilibrismo della Consulta

La Corte costituzionale ha difeso il fondo ristori istituito dal governo Draghi, ma sul superamento dell’immunità internazionale degli Stati prevale il disincanto

Editoriali - di Andrea Pugiotto

4 Agosto 2023 alle 17:30

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Risarcimento alle vittime dei nazisti, l’equilibrismo della Consulta

1. Con la sent. n. 159, depositata alcuni giorni fa, la Consulta ha attraversato, da un capo all’altro, la corda tesa sopra una quaestio vertiginosa per le sue molteplici implicazioni di politica del diritto (già squadernate su l’Unità del 19 luglio scorso).

Oggetto di sindacato è il fondo istituito dal governo Draghi a ristoro dei danni derivanti da crimini di guerra e contro l’umanità, compiuti in territorio italiano o comunque a danno di cittadini italiani da parte di forze del III Reich, tra l’1 settembre 1939 e l’8 maggio 1945. Introdotta con decreto-legge a sigillare l’infinito contenzioso italo-tedesco, questa norma ad hoc ha generato (sul piano interno) dubbi di costituzionalità e confermato (sul piano internazionale) il superamento in Italia della consuetudine tra Stati che li rende immuni dalla giurisdizione civile per atti espressione di poteri sovrani, anche se lesivi di diritti fondamentali della persona.

Alta è la posta in gioco. Molto in breve: il meccanismo introdotto è satisfattivo delle ragioni delle vittime? È in grado di disinnescare la causa pendente contro l’Italia davanti alla Corte de L’Aja? È coerente con la prevalenza della tutela dei diritti umani o rappresenta un cedimento alla ragion di Stato? Sarebbe stato deludente eludere tali interrogativi, dichiarando inammissibile la quaestio per ragioni processuali (come pure era possibile). Più opportunamente, la Corte ha scelto di affrontare nel merito le eccezioni d’incostituzionalità, respingendole poi come infondate sulla base di importanti scelte interpretative precisate in motivazione.

2. Tutto nasce perché la Germania è chiamata a rispondere civilmente per i crimini nazisti commessi in Italia o a danno di cittadini italiani: rastrellati, deportati, internati, sottoposti a trattamenti inumani, uccisi per rappresaglia o morti in un lager. Se non è la vittima sopravvissuta, sono i suoi eredi a citare in giudizio lo Stato tedesco fino alla condanna e alla relativa esecuzione forzata, mediante pignoramento di beni tedeschi in territorio italiano.

Porre fine a tale contenzioso è lo scopo della norma impugnata (art. 43, decreto-legge n. 36 del 2022). Entro una finestra temporale definita (28 giugno 2023), può accedere al fondo solo chi ha avviato azioni giudiziarie all’esito delle quali ha ottenuto una sentenza passata in giudicato che accerti e liquidi i danni subiti. Chiusa quella finestra, non possono più essere iniziate procedure esecutive contro la Germania, mentre quelle eventualmente intraprese sono dichiarate estinte.

Questa norma «speciale e radicale» è dalla Consulta giudicata «virtuosa, anche se onerosa» per lo Stato italiano. Da un lato, risponde a interessi di rango costituzionale: il mantenimento di relazioni tra Nazioni ispirate alla pace e alla giustizia (art. 11 Cost.) e il rispetto degli obblighi internazionali (art. 117, 1° comma, Cost.) derivanti dai trattati italo-tedeschi sulla riparazione dei danni di guerra (che la sentenza ripercorre con larghe pennellate e minuti dettagli).

Dall’altro lato, traslando l’onere economico risarcitorio sull’erario italiano, appresta «una adeguata tutela alternativa» a quella conseguibile con l’esecuzione forzata nei confronti della Germania. Il passato rivive così – letteralmente – a nostre spese. Nel contempo, la ghigliottina che cade su azioni giudiziarie fuori tempo massimo traduce processualmente l’esigenza di arginare la dimensione rivendicativa di un passato altrimenti mai passato.

3. La ragionevolezza di questo bilanciamento legislativo dipende, però, da una condizione precisa: la vittima che accede al fondo è titolare di un diritto soggettivo a un pieno risarcimento. È una condizione inattesa ma del tutto appropriata, che i giudici costituzionali motivano valorizzando alla lettera le pertinenti disposizioni (legislative e regolamentari).

Alle vittime e ai loro eredi spetta, dunque, non un mero indennizzo né un riparto pro quota delle somme disponibili nel fondo, bensì «un soddisfacimento integrale del credito risarcitorio». È ben più del punto della bandiera. Le loro legittime pretese sono meglio assicurate di quanto potrebbe accadere all’esito di un’aleatoria procedura di esecuzione forzata, dove opera lo schermo della «immunità ristretta degli Stati» i cui beni a vocazione pubblicistica non sono pignorabili. La censura secondo cui le ragioni creditorie delle vittime sarebbero state pregiudicate si rovescia così nel suo contrario. Aprendo però dubbi sulla capienza del fondo: l’attuale dotazione (poco più di 55 milioni di euro in 4 anni) basterà a fronteggiare simili spese di giustizia, imprevedibilmente elevate?

L’incapienza del fondo. Ma anche la decadenza ex lege di tutte le azioni giudiziarie intempestive. Come pure la discriminazione delle vittime straniere, cui è impedito sia l’accesso al fondo (riservato a quelle italiane) sia di proseguire o promuovere procedure esecutive contro la Germania. Sono tutti nodi che, prima o poi, arriveranno al pettine della Consulta quali ipotesi di denegata giustizia. La vicenda complessiva, dunque, è destinata a restare aperta ancora a lungo.

4. Oltre la quaestio specifica, si è giocato anche il secondo tempo di una partita che vede la giurisdizione italiana (Consulta, Cassazione, giudici di merito) contrastare, pressoché in splendida solitudine, l’immunità internazionale degli Stati dalla giurisdizione civile. Dieci anni fa, aveva fatto il giro del mondo la sentenza costituzionale n. 238/2014, che opponeva all’operatività di tale consuetudine un’«eccezione umanitaria»: nell’ordinamento italiano, gli Stati rispondono sul piano civile per atti compiuti da loro funzionari, se palesemente criminali.

Altrimenti, conferendo all’immunità internazionale un carattere assoluto, si precluderebbe qualsiasi possibilità di veder accertati e tutelati i propri diritti: come quelli delle vittime di crimini nazisti, le cui pretese risarcitorie sono già negate nell’ordinamento tedesco. Quell’inedito giudicato costituzionale ha acceso il semaforo verde ai processi civili contro la Germania che, se giunti a destinazione, danno ora diritto di accesso al fondo governativo. Ma ha anche esposto l’Italia, su iniziativa tedesca, a responsabilità internazionale davanti alla competente Corte di giustizia. In questo contesto, dove si colloca l’odierna sent. n. 159?

Richiamandone la ratio decidendi, essa conferma la sent. n. 238/2014 ribadendo la validità dell’eccezione umanitaria nei (soli) giudizi di cognizione. Avesse mutato spartito rovesciando quel suo diretto precedente, ne sarebbe uscito travolto anche il meccanismo ristorativo introdotto che presuppone proprio quell’eccezione. Il governo (introducendo la norma impugnata), le Camere (convertendola in legge) e la Consulta (escludendone l’incostituzionalità) concorrono così alla reiterata violazione di una regola internazionale che non ammette deroga alcuna. Da qui una previsione: difficilmente la Germania rinuncerà al ricorso contro l’Italia davanti alla Corte de L’Aja, che già in passato le diede ragione sul punto (sentenza 3 febbraio 2012). Se la norma impugnata mirava a disinnescare anche questo contenzioso, il bersaglio sembra mancato.

5. Colpisce, infine, l’afasia della sent. n. 159 sul seguito della battaglia ingaggiata un decennio fa a favore di una rinnovata consuetudine internazionale, meno stato-centrica e più aperta alle ragioni dei diritti fondamentali della persona. È solo l’Avvocatura dello Stato a farne menzione, per confermare però l’operatività dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile «anche per gross violations dei diritti umani». L’impressione è che il silenzio dei giudici costituzionali esprima, con garbato disincanto, la presa d’atto che quella loro chiamata a raccolta non è stata ascoltata oltre i confini nazionali. Se così è, persistendo l’assenza di una rinnovata prassi internazionale, la coraggiosa sent. n. 238/2014 rischia di rivelarsi un monumento alle buone intenzioni.

4 Agosto 2023

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