L'inchiesta Open
Caso Open, perché la Corte Costituzionale ha smontato le tesi del Pm
La Corte costituzionale ha accolto il conflitto di attribuzione sollevato da Palazzo Madama nei confronti della procura di Firenze sul “caso Renzi”.
Giustizia - di Salvatore Curreri
Con sentenza n. 170 depositata ieri – ma decisa il 22 giugno – la Corte costituzionale ha accolto il conflitto di attribuzioni sollevato dal Senato contro la Procura della Repubblica di Firenze per aver acquisito la corrispondenza tramite mail e whatsApp tra il sen. Renzi e un terzo indagato (Carrai), estratti dal cellulare di quest’ultimo senza chiedere la preventiva autorizzazione alla camera di appartenenza prescritta dall’art. 68.3 Cost. quando si vuole intercettare un parlamentare.
Secondo i pubblici ministeri fiorentini – e il sen. Grasso che i loro argomenti ha ripreso in Aula – la prerogativa parlamentare dell’autorizzazione non era applicabile al caso in quanto: 1) il sequestro non riguardava un parlamentare ma un soggetto terzo con cui egli aveva messaggiato; 2) i messaggi, una volta ricevuti dal destinatario, si trasformano da corrispondenza a meri documenti, acquisibili pertanto senza autorizzazione; 3) diversamente, il pubblico ministero che volesse sequestrare un dispositivo elettronico ad un soggetto terzo, nel timore di trovarvi comunicazioni con un parlamentare, dovrebbe chiedere una sorta di autorizzazione preventiva “alla cieca”; 4) l’eventuale negata autorizzazione comporterebbe la loro inutilizzabilità processuale anche nei confronti del terzo indagato, il quale si gioverebbe indirettamente di tale “scudo”, con ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri “comuni” cittadini.
Tutti argomenti che – come ampiamente prevedibile e previsto (v. il mio La libertà di comunicazione del parlamentare. Riflessioni sul “caso Renzi”, in lacostituzione.info, 4 marzo 2022) – sono stati puntualmente confutati dalla Corte. La nostra Costituzione tutela la libertà e la segretezza di qualsiasi forma di comunicazione (art. 15), specie quella dei parlamentari (art. 68) per consentire loro il pieno esercizio della loro funzioni (art. 67). A tal fine comunicazione non è solo quanto viaggia dal mittente al destinatario ma anche ciò che, dopo la ricezione e conoscenza del destinatario, entrambi considerano attuale, impegnandosi reciprocamente a tenere riservato.
In un’epoca come l’attuale dove non ci si spediscono più lettere o cartoline ma messaggi istantanei, ritenere che la tutela costituzionale riguardi solo la (vecchia) corrispondenza cartacea e non quella (nuova) digitale, degradandola a mero documento quando non più “in fieri” ma (immediatamente) ricevuta dal destinatario, significa di fatto oggi azzerarla quasi del tutto. Tesi, peraltro, che rinnega quella felicissima apertura al futuro prevista dall’art. 15 Cost. laddove estende la tutela costituzionale ad “ogni altra forma di comunicazione” rispetto a quelle conosciute all’atto della sua redazione e che trova conferma nell’art. 68 Cost. laddove, come detto, protegge il parlamentare da “qualsiasi forma” di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni. Per questo, secondo la Corte, nella nozione di corrispondenza vanno oggi ricondotti anche gli odierni messaggi elettronici ed informatici che, ancorché subito ricevuti dal destinatario, conservano i caratteri di attualità ed interesse per gli interlocutori.
Tali considerazioni acquistano un significato particolare nel caso specifico oggetto del conflitto di attribuzioni. Qui si trattava della corrispondenza intrattenuta da e con un parlamentare, per il cui sequestro, come detto, l’articolo 68, comma 3, Cost. richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Contro l’ondata populista, fortunatamente in fase di risacca, secondo cui i parlamentari devono essere in tutto e per tutto eguali ai comuni cittadini, va ribadito con la forza che viene dalla lungimiranza dei nostri costituenti che non siamo di fronte all’ennesimo intollerabile privilegio personale ma ad una prerogativa “strumentale (…) alla salvaguardia delle funzioni parlamentari” di modo che intercettazioni o sequestri di corrispondenza non siano “indebitamente finalizzat[i] ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività” (Corte cost. 390/2007). Se questa è la ratio di tale prerogativa, limitarla alle comunicazioni solo in corso di svolgimento e non già concluse – come pretendeva la Procura di Firenze – significava darne una interpretazione così restrittiva da azzerarla di fatto (4.4 cons. dir.).
Se la Corte costituzionale avesse deciso diversamente, infatti, d’ora in poi i pubblici ministeri avrebbero potuto facilmente eludere l’obbligo costituzionale di autorizzazione preventiva per acquisire agli atti la corrispondenza del parlamentare: anziché intercettarne le comunicazioni del parlamentare nel momento in cui si svolgono, sarebbe bastato loro attenderne la conclusione e poi sequestrare il device in cui vi era traccia del loro contenuto. Invece, nella corrispondenza del parlamentare rientrano financo i “documenti a carattere comunicativo”, sia quelli che riportano i dati esteriori della comunicazione, come i tabulati telefonici (C. cost. 38/2019), sia a maggior ragione i messaggi elettronici, che ne riportano anche il contenuto.
Del resto è lo stesso principio che, mutatis mutandis, ha portato la Corte costituzionale ad accogliere il conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente Napolitano contro la Procura di Palermo che ne aveva casualmente ascoltato le comunicazioni intercettando l’ex sen. Mancino. In quel caso, infatti, il giudizio non dipese dall’attualità o dal tipo della comunicazione, cioè dall’intercettazione della comunicazione presidenziale mentre si stava svolgendo, ma dalla necessità di tutelare, indipendentemente dal mezzo impiegato, l’interesse costituzionalmente protetto di consentire “l’efficace svolgimento delle funzioni di equilibrio e raccordo tipiche del ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano” (Corte cost. 1/2013). Di fronte ad argomenti così chiari e di tale peso costituzionale, si può ritenere che la Corte costituzionale avrebbe preso una decisione diversa se Mancino, anziché telefonare al presidente Napolitano, gli avesse mandato un sms o una mail, sposando la tesi della procura di Firenze secondo cui in quel caso si era in presenza di documenti e non di forme di comunicazione degne di eguale tutela costituzionale? Suvvia…
Anche le altre argomentazioni della Procura di Firenze sono state agevolmente confutate dalla Corte. L’obbligo di autorizzazione della camera di appartenenza non implica infatti alcuna capacità divinatoria del pubblico ministero, né alcuna impunità del terzo che abbia comunicato con un parlamentare. Molto semplicemente: se il pubblico ministero riscontra nel device sequestrato ad un terzo messaggi con un parlamentare, egli dovrà sospendere la loro estrazione e chiedere immediatamente per il loro uso l’autorizzazione alla camera di appartenenza, indipendentemente dalla natura occasionale o mirata dell’intercettazione del parlamentare. Se invece vorrà utilizzare tali intercettazioni contro il terzo, non vi sarà nessuno scudo: come chiarito dalla Corte costituzionale già nella sentenza n. 390/2007, tale materiale probatorio è sempre e comunque utilizzabile, indipendentemente dall’esito della richiesta di autorizzazione; altrimenti si avrebbe una “irragionevole disparità di trattamento fra gli indagati, a seconda che tra i loro «interlocutori occasionali» vi sia stato o meno un membro del Parlamento”.
Pertanto anche nel caso in cui gli organi inquirenti prevedano che nel device del terzo indagato siano memorizzati messaggi di un parlamentare, essi possono comunque apprendere il dispositivo e sequestrare tutti gli altri dati informatici che vi sono contenuti “che nulla hanno a che vedere con la corrispondenza del parlamentare” (5.1 c.d.). Anche se come detto prevedibilmente risolto a favore del Senato, il conflitto di attribuzioni sollevato lascia comunque l’amaro retrogusto che deriva da una vicenda processuale che non si sarebbe dovuto nemmeno porre.
L’averla sollevata, al di là di ogni considerazione sul c.d. fumus persecutionis, denota quanta fatica faccia una certa magistratura ad inquadrare determinati problemi in una prospettiva costituzionale ispirata all’esigenza primaria di tutelare il libero svolgimento del mandato parlamentare, anche attraverso quella sua dimensione ormai essenziale che è la comunicazione in via non più cartacea ma digitale.