Parola all'autore
Virman Cusenza racconta Enzo Paroli, eroe garantista che salvò un fascista
«Avvocato socialista, già incarcerato dal regime, Enzo accetta nel ‘ 45 di difendere Telesio Interlandi, razzista e uomo di fiducia di Mussolini. E lo nasconde nel suo scantinato per non farlo uccidere»
Interviste - di Francesco Lo Dico
C’era una volta un socialista che salvò un fascista e lo nascose persino in casa sua. Sembra una favola surreale, alcuni la sussurravano a bassa voce come una leggenda. E invece era tutto vero. A scoprirlo, carte alla mano, è stato molti anni dopo dai fatti Virman Cusenza, giornalista e scrittore, dopo un lungo lavoro d’inchiesta che lo ha sospinto su e giù per la Penisola lungo le direttrici di un appassionante cold case che l’ha visto cimentarsi nel triplice ruolo di detective, giornalista e persino di archivista. Il risultato è Giocatori d’azzardo. Storia di Enzo Paroli, l’antifascista che salvò il giornalista di Mussolini pubblicato per i tipi di Mondadori.
«Ho scritto questo libro perché Enzo Paroli, il protagonista, è un campione di garantismo». Difficile dar torto a Virman Cusenza, Difficile soprattutto perché il deus ex machina di questa storia è un altro campione di garantismo assoluto, Leonardo Sciascia. «Quella che racconto in Giocatori d’azzardo – spiega Cusenza – è una storia in cui si era imbattuto Leonardo Sciascia nel 1988. Tutto era nato da una ricerca su Telesio Interlandi: lo scrittore apprende questa storia straordinaria direttamente dal figlio di quello che era considerato durante il Ventennio il ventriloquo di Mussolini. In una lettera a lui indirizzata, Sciascia scrive al figlio di Interlandi di essere rimasto molto colpito dall’ “azione di grande fraternità umana” che l’avvocato Paroli aveva compiuto verso suo padre Telesio, un fascista che aveva tuttavia per Paroli, avvocato socialista, il diritto di essere difeso come qualunque altra persona al mondo».
Telesio Interlandi. Non un fascista di secondo piano. Chi era esattamente?
Siciliano di Chiaromonte Gulfi, Telesio Interlandi andò a fare il direttore del Tevere, il giornale voluto da Benito Mussolini alla fine del ‘24. Dopo l’omicidio Matteotti, il Duce voleva un giornale che lo difendesse a spada tratta e ne diventasse il megafono. Parliamo dello stesso Interlandi che in seguito, nel ’38, andò a dirigere La difesa della razza, l’organo di regime che condusse la campagna razziale. Interlandi era un uomo di fiducia del Duce, era uno dei pochi che aveva il suo numero diretto a Palazzo Venezia. Nel ’45 Interlandi lo segue anche a Salò, finché poco tempo dopo, in ottobre, lo arrestano dopo che si era dato alla fuga nelle campagne del Bresciano e viene trasferito in carcere con l’accusa di collaborazionismo. È un’accusa grave: Interlandi rischia la pena di morte. A giudicarlo saranno infatti le Corti d’assise straordinarie, che erano qualcosa di simile e specularmente opposto ai Tribunali speciali del fascismo. A questo punto la moglie di Interlandi si mette in cerca del migliore avvocato di Brescia nel tentativo di salvare il marito.
E scommetto che a questo punto entra in scena proprio lui. Il campione di garantismo. Enzo Paroli. Chi era davvero?
Enzo Paroli è il rampollo del prestigioso studio legale che porta il suo cognome. Un cognome pesante. Suo padre è niente meno che Ercole Paroli. Parliamo, per intenderci, di colui che insieme a Bissolati, nel 1919, fonda il partito socialista. Una storia, quella di Paroli che arriva dritta fino ai nostri giorni. La nuova sindaca di Brescia, Laura Castelletti, socialista di centrosinistra, è la pronipote del nostro avvocato, Enzo Paroli.
Immagino che Paroli non abbia fatto salti di gioia quando gli fu proposto di difendere Interlandi.
Interlandi non è “solo” un fascista. È anche un razzista. Paroli è tormentato. Esita. Eppure quando lo incontra in carcere decide di difenderlo.
A questo punto l’etichetta di “campione del garantismo” comincia a non essere più fortemente esagerata.
Niente affatto. Perché è qui che viene il bello. L’avvocato Paroli non si limita ad accettare di difendere un cliente a quei tempi piuttosto ingombrante. Fa molto di più. Accade infatti che Telesio Interlandi viene scarcerato per errore. E che Paroli, a quel punto, decide di nasconderlo a casa sua, nello scantinato, insieme al figlio e alla moglie per otto mesi.
Che cosa rischia Interlandi?
L’avvocato prova a mettere Interlandi al riparo da due possibili finali che culminano entrambi allo stesso modo: con la morte. In primo luogo Paroli è pronto a difenderlo in Tribunale dall’accusa di collaborazionismo che potrebbe costare al suo assistito la pena capitale. In secondo luogo l’avvocato salvaguarda la vita del suo cliente e quella dei suoi familiari. Nasconderlo in casa sua significa salvare Interlandi da una possibile vendetta dei partigiani, che se lo avessero beccato inerme in strada probabilmente gli avrebbero fatto la festa. La guerra civile non era certo finita il 25 aprile del 1945.
Avrebbe rischiato grosso anche Paroli stesso, immagino.
Non è un pericolo da poco quello che decide di correre nascondendo in casa un latitante come Interlandi. Se scoperto, Paroli rischia di finire incriminato per favoreggiamento.
E qui andiamo oltre la semplice idea che Paroli è il trionfo dello Stato di diritto che non ripaga con la stessa moneta la giustizia vendicativa del regime che serviva ad annientare i nemici. Non è semplice garantismo, qui si tratta di infrangere il diritto per salvare una vita, anche se quella vita non ci piace. Qui entriamo in considerazioni che sarebbero piaciute ad Antigone.
La straordinarietà del gesto di Paroli sta nel fatto che esso travalica qualunque steccato di legge. Paroli ritiene che togliere la vita a questo personaggio, per quanto aborrito, scomodo, e sicuramente dalla parte del torto, è un gesto compiuto contro la pena più disumana e inaccettabile di tutte, la pena di morte. Paroli non crede soltanto che anche il peggior criminale abbia il diritto di difesa. Ma anche che il peggior criminale ha il diritto di veder salva la sua vita. Che nessuna accusa può culminare nella soppressione della vita stessa.
Sciascia, Antigone, ma anche Voltaire.
Difendere l’accusato non significa minimamente condividerne le posizioni e l’ideologia, né tantomeno essere innocentisti o perdonisti. L’idea di Paroli non cambia di una virgola, in lui non aleggia alcuno spirito revisionista, né alcuna forzatura che tenta di cancellare la colpa. Si tratta di un gesto di pietà, intesa nell’accezione della pietas latina. Un atto di clemenza del vincitore che non infierisce sul vinto. A riprova di questo, c’è una certezza: Paroli e Interlandi non diventeranno mai amici.
Incredibile questo Paroli. Siamo sicuri che fosse davvero un garantista, o magari era solo un incosciente?
Tutt’altro. Era un garantista per esperienza diretta, per così dire. Seppure per qualche giorno, Paroli aveva infatti saggiato in prima persona i rigori delle carceri fasciste. Era finito dentro perché gli uomini di Mussolini cercavano suo padre. Ma non avendolo trovato in casa, avevano sbattuto dentro lui per motivi di semplice dissenso politico.
«Non sono d’accordo con quello che dici, e potrei toglierti la vita perché tu non possa dirlo più». Una declinazione di Voltaire che forse avrebbe spinto un altro che non fosse stato Paroli a dire “ciaone” a Interlandi.
Nello sperimentare la durezza del carcere, il nostro amico avvocato comprende quanto possa essere profonda l’amarezza per chi viene giudicato e punito solo sulla base delle sue idee politiche.
Da tutte le pagine del libro affiora una domanda di fondo: perché Enzo Paroli ha fatto questo gesto?
La risposta è, oltre che in quello che ci siamo detti finora, nella natura del personaggio. Paroli è un uomo che ama l’azzardo. Aveva tutto da perdere e niente da guadagnare. Era stato un eroe decorato al valore militare nella Prima guerra mondiale, era un ufficiale dell’aeronautica, era un donnaiolo, un amante della bella vita. Un vero eccentrico, un anticonformista per eccellenza. Quando nel 1944 vengono istituite le Corti d’assise straordinarie che avrebbero dovuto giudicare i reati di collaborazionismo alla fine della guerra, Paroli come molte altre personalità d’eccellenza del mondo del diritto viene chiamato a far parte di queste Corti come sostituto procuratore, ma dopo un giorno rifiuta questa nomina, dicendo: “Sono avvocato e voglio morire avvocato. Amo difendere e non accusare”. Un garantista vero che ha la vocazione del difensore assoluto.
Ritorniamo a Sciascia. Ci dicevi che aveva già scoperto tutto di questa storia.
È così. Sciascia aveva incontrato il figlio di Interlandi e il figlio di Paroli, ma di documenti non ne aveva reperiti ancora molti perché di lì a poco sarebbe morto. Li aveva messi in una cartellina, che poi la sua famiglia ha deciso di affidarmi. Mi sono reso conto subito che c’erano degli spunti molto promettenti. Ma eravamo ancora lontani dall’avere la completezza della documentazione. E mancava soprattutto la prova regina, quella che avrebbe potuto fare da spartiacque tra una leggenda metropolitana e una storia vera raccontata con rigore storico: il fascicolo giudiziario che dimostrasse la veridicità di questa vicenda.
Come sei riuscito a ritrovarlo?
All’Archivio centrale dello Stato non ce n’era più traccia. Nessuna traccia neppure a Brescia. Scartabellando tra le carte dell’Archivio centrale dello Stato ho recuperato però dei numeretti relativi a un fascicolo su Interlandi. Una traccia preziosa, che mi ha permesso di ritrovare il fascicolo all’Archivio di Stato. Avevo alle spalle i 35 faldoni del processo Matteotti e a un certo punto eccolo apparire: il fascicolo era stato trasmesso a Roma per competenza. A quel punto grido il mio “eureka” e mi metto a scrivere il libro.
Che cosa ti ha spinto davvero a scriverlo?
Mi ha spinto l’amore per la giustizia. È la giustizia lo spartiacque tra la civiltà e l’inciviltà. La giustizia come equilibrio e garanzia di parità di diritti. C’è però di più. Non si tratta solo di voler raccontare il garantismo, ma di raccontare il garantismo vero, non peloso, quello che non va a corrente alternata a seconda che la giustizia investa un tuo amico o un tuo nemico. La storia degli avvocati Ercoli, padre e figlio, socialisti, è esemplare perché ci conduce sino alla foce del garantismo che nasce in tempi in cui i soggetti più deboli, operai e contadini, non avevano garanzie di difesa comparabili a quelle delle classi più abbienti come quelle degli industriali. Era il garantismo nella sua essenza più genuina. Alla fine dell’Ottocento voler difendere chi aveva diritti più affievoliti significa aver tutto da perdere e niente da guadagnare. I magistrati di allora erano conservatori, erano in genere il braccio esecutivo del governo. Nel momento in cui Enzo è incerto nel difendere Interlandi, il padre Ercole gli dice solo poche parole: “Tu sai qual è il nostro dovere”.
Tra l’altro la vicenda è sintomatica dei successivi eventi che porteranno all’amnistia di Togliatti. Ai vinti non sarebbero stati applicati gli stessi metodi che i fascisti riservavano a chi dissentiva, ma le regole dello Stato di diritto e della democrazia.
Proprio così. In un Paese dilaniato da odi, rancori e vendette, Paroli compie un’azione pacificatrice singola che riecheggia nell’amnistia voluta da Togliatti nel ’46 per porre fine a un’epoca sanguinosa.
Curiosità. Come in tutte le belle favole Interlandi e Paroli diventeranno infine amici?
Niente affatto. Interlandi proverà certamente gratitudine per il suo difensore, ma le distanze politiche e culturali tra i due resteranno intatte. Interlandi rimane se stesso. Nessun pentimento, nessuna redenzione. E lo stesso vale per Paroli. Un uomo che sente di aver semplicemente compiuto il suo dovere, seppure nei confronti di un antagonista politico che aveva apertamente parteggiato per il regime e per la razza. Paroli rivendicherà quel salvataggio ma senza mai sbandierarlo: un riserbo che esalta la grandezza morale di un gesto che è illuminante e anticipatore del necessatio senso di fraternità senza il quale sarebbe stato impossibile ricostruire un Paese che andava integralmente costruito. In Paroli aleggia, incarnato nell’esempio di un singolo uomo e di una singola vicenda, lo stesso spirito che troverà riscontro ufficiale nell’amnistia di Togliatti del ‘46.