La ministra alla sbarra

Perché Report accusa la Santanché, quali sono i sospetti mossi da Ranucci

L’indagata Santanchè, ammesso che lo sia, ha diritto di tacere, di mentire. E a un difensore. Ciò che dirà davanti ai parlamentari potrà essere utilizzato contro di lei in sede processuale

Giustizia - di Giuseppe Fanuzzi

28 Giugno 2023 alle 13:30

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Perché Report accusa la Santanché, quali sono i sospetti mossi da Ranucci

Non c’è niente da fare. Parafrasando il grande Edoardo De Filippo, non si può fare a meno di dire «a me a Santanché nun me piace». Ma proprio per niente. È una roba istintiva, per carità avrà anche tutte le doti dell’universo femminile, della politica e dell’imprenditoria messe insieme, ma questo è.

Chiarito il punto e scanso dei soliti malintenzionati armati del solito manganello giustizialista e moralista, qualche parola bisogna pur spenderla su questa tenebrosa vicenda che vede un ministro della Repubblica accusato da una trasmissione televisiva del servizio pubblico (ossia pagata con i soldi di tutti i cittadini) di gravi irregolarità finanziarie e costretto a difendersi in Parlamento dalle accuse a mezzo stampa che gli sono state rivolte. Roba da non credere verrebbe da dire in coro se la Santanché ci fosse poco poco più simpatica, meno sgradevole in tante sue sortite. Ma siccome molti tacciono, altrettanti si fregano le mani e la falce giustizialista sta affilando la lama bramosa dell’ennesima vittoria, qualche parola deve pur dirsi a difesa della cittadina Santanché.

Non sia uno sproposito ricordare solo alcune parole del discorso che Robespierre pronunciò davanti alla Convenzione nazionale il 3 dicembre 1792 per ottenere la condanna a morte di Luigi Capeto (Luigi XVI). Sono solo il miglior distillato del populismo giustizialista e come tali dovrebbero essere un faro che illumina ogni devianza e ogni deriva: «Qui non c’è da fare un processo. Luigi non è un imputato; voi non siete dei giudici; voi siete e non potete essere altro che uomini di Stato e rappresentanti della nazione. Non dovete emettere una sentenza a favore o contro un uomo: dovete prendere una misura di salute pubblica, dovete compiere un atto di provvidenza nazionale … I popoli non giudicano come le corti giudiziarie, non emettono sentenze: lanciano la loro folgore; non condannano i re: li piombano nel nulla».

Ecco, piombare il nemico nel nulla del linciaggio mediatico, affogarlo con l’energia incontenibile del giudizio morale che la pubblica opinione, il popolo del web ha diritto di esprimere senza attendere che i giudici si pronuncino. Ufficialmente non è noto se il ministro Santanché sia indagata o meno per qualche reato. Diciamo che è molto probabile che lo sia, vista la messe di informazioni e documenti che sono stati adoperati da Report e che occupano paginate di giornali. Ci sarebbe una legge sulla presunzione di innocenza, ma insomma un cavillo: «voi invocate le forme perché non avete principi» avrebbe tuonato il rivoluzionario francese.

Come se le forme, le garanzie, le precauzioni fossero un orpello insopportabile quando la verità è così a portata di mano, così evidente, così inoppugnabile. La comunicazione della Santanché innanzi al Parlamento sulla sua vicenda giudiziaria aggiungerà un altro mattone al muro innalzato da coloro che vogliono la società separata in irreprensibili buoni e in incorreggibili cattivi a prescindere dal faticoso viatico dei tribunali. Il ministro ha tutte le stimmate antropologiche, quasi fisiognomiche per stare dalla parte sbagliata del muro. Eppure. Eppure una domanda appare lecita.

Se la Santanchè fosse chiamata a rispondere di fatti illeciti o anche di sole irregolarità relative alla sua attività ministeriale non vi sono dubbi che avrebbe il dovere e anche il diritto di appellarsi al Parlamento e di rendere conto in quella sede delle proprie azioni, delle proprie scelte, finanche dell’opera di propri collaboratori. Sarebbe un’evidente questione politica e istituzionale e le Camere hanno diritto di sapere della probità istituzionale di un ministro della Repubblica. Si sente citare, in questi giorni, l’articolo 54 della Costituzione per giustificare l’operazione politica che si sta compiendo nella generale approvazione delle forze di maggioranza e di quelle di opposizione.

Il lavacro pubblico sarebbe imposto dal fatto che la Carta fondamentale pretende che «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». Giusto, ma i fatti contestati a mezzo stampa alla Santanché non riguardo la sua attività di ministro, in relazione alla quale ha prestato giuramento nelle mani del Capo dello Stato. Quindi l’articolo 54 non c’entra nulla con il palcoscenico politico-mediatico che si sta allestendo in forma di processo popolare. L’indagata Santanché, ammesso che lo sia, ha diritto di tacere, ha diritto di mentire, ha diritto di farsi assistere da un difensore. Ciò che sarà “costretta” a dire a propria difesa nelle aule parlamentari potrà essere utilizzato contro di lei in sede processuale; l’accusa potrà contestarle menzogne, errori, ricordi sbagliati.

Le cose che capitano in tutti i processi e, soprattutto, in vicende così complesse. Da questo punto di vista il presidente del ramo del Parlamento in cui la difesa della Santanché si dovesse svolgere (probabilmente la Camera, visto che Ignazio La Russa è stato suo avvocato in passato) dovrebbe interdire alla ministra qualunque riferimento alle questioni penali di cui è stata accusata dai media in questi giorni. Sono in gioco non solo il principio della separazione dei poteri che non consente cripto processi popolari, non solo la presunzione di innocenza, non solo le garanzie dell’indagata, ma un principio cardine della Repubblica che non può costringere nessuno a doversi difendere in un consesso istituzionale, soprattutto nel più alto, in forza di una compagna di stampa.

Se la Santanchè avverte o stata avvertita della necessità di difendersi da quelle accuse convochi una conferenza stampa e spieghi in quella sede le proprie ragioni. Ma se davvero andrà in un’aula del Parlamento taccia su quei fatti e si limiti a dire che da ministro nulla le può essere rimproverato e che tocca solo al premier revocarle l’incarico a Palazzo Chigi per quanto sarebbe accaduto. La presidente Meloni ha ceduto, e non è la prima volta, alle affilate lusinghe giustizialiste di cui non sa e non vuole liberarsi e, anziché rivendicare le proprie prerogative e fissare il perimetro della responsabilità politica del proprio ministro, si è affidata all’apparente scorciatoia del chiarimento in aula.

Inutile lavarsi le mani dell’impiccio appellandosi al Parlamento che un giudizio non può esprimere su quella vicenda, senza ripiombare nel biasimevole precedente della “nipote di Mubarak”. Inutile far passare il gesto come una sorta di doverosa giustificazione alla pubblica opinione. Non è e non deve essere quella la sede. È solo un ulteriore cedimento alla deriva giustizialista che colpì in passato anche un paio di ministri del governo Renzi, costretti alle dimissioni sull’onda della pubblicazione di atti processuali. Ma allora si ebbe l’accortezza di evitare un passaggio in Parlamento che non è la Convezione francese del 1792.

28 Giugno 2023

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