Il ritratto
Storia di Elodia Manservigi, la staliniana fiera finita nel gulag
Cultura - di Duccio Trombadori
Non dovevo avere ancora compiuto i dodici anni quando conobbi Elodia Manservigi (1893-1968) che si era da poco trasferita a Roma dalla Urss dove aveva passato più di metà della vita, e buona parte nei campi di lavoro forzato al tempo delle purghe staliniane. Me ne avevano parlato i miei genitori, annunciandola come persona che aveva avuto una vita piena di tormenti.
Era stato effettivamente così ma lei non ne aveva l’aria. Era una robusta plurisessantenne dai capelli bianchi, di buon umore e sempre con la sigaretta in bocca alla sovietica, cioè la immancabile ‘Bielomor kanal’ dal lungo bocchino di cartone. Aveva stretto amicizia con mia madre Fulvia, con la quale lavorava in una associazione collaterale del PCI. Ne aveva passate tante, ma era rimasta una militante di ferro, devota al Partito comunista ai suoi ideali di gioventù. Emiliana di Pontelagoscuro, nella bassa pianura ferrarese, di famiglia socialista, si era iscritta al PCI fin dal 1921.
Operaia tessile, dopo l’espatrio clandestino del marito Angelo Valente, fu arrestata a Torino, e nel 1923 raggiunse l’Urss assieme al piccolo figlio Sergio. Da quel momento la vita di Elodia si fuse con quella del ‘primo stato socialista del mondo’ : studiò alla università Zapada, fu inviata dal PCI a Parigi, lavorò come dattilografa e annunciatrice delle trasmissioni di propaganda in lingua italiana. Nel 1936 prese la cittadinanza sovietica.
La sua esuberanza e sincerità di espressione, che disapprovava apertamente i difetti di regime, e la tragica vicenda di suo fratello Lino Manservigi -condannato a morte nel 1938 come ‘agente trotzkista’, poi riabilitato-precipitarono la situazione all’inizio della guerra. Arrestata il 31 ottobre 1940 con l’accusa di “propaganda antisovietica e diffusione di invenzioni calunniose antisovietiche”, Elodia Manservigi, fu internata nelle carceri del NKVD, condannata a 5 anni di lavori forzati nel campo di Karaganda (Kazachistan). Nel 1946, scontata la pena, lavorò a Tokarevka, in Kazachistan, fu inserviente in un bagno pubblico e infine operaia in un calzaturificio di Karaganda.
In questo periodo venne a sapere che anche suo figlio Sergio, militare della Armata Rossa, era stato confinato in una località siberiana dove era morto. La pena per le sorti familiari accompagnò la vita di Elodia Manservigi fin dopo la morte di Stalin.L’avvento di Krusciov le consentì di fare valere le sue ragioni: venne riabilitata nella estate del 1955 e le fu assegnata una pensione. Giunta in Italia Elodia Manservigi non smise di battersi per le sue idee. Si riteneva sempre una ‘rivoluzionaria di professione’; e a me che le domandavo curioso spiegazioni sul regime in URSS, Elodia rispondeva con una sicurezza sorridente, quasi ‘gogoliana’.
La sua prima preoccupazione era difendere la Urss da ogni attacco, e temeva che si potesse approfittare del suo ‘caso personale’ per condannare il regime sovietico, e non solo quello…Stalin restava per lei un grande rivoluzionario: ‘ era bravo ed aveva tante buone ragioni-ripeteva- ed ha molte meno colpe di quelle che si dicono: è stato vittima della burocrazia e dei personaggi altolocati del regime’. Era piena di fiducia, e di tenacia, Elodia Manservigi. E la trasmetteva a chi la stimava e le era vicino. Di comuniste così, ma soprattutto di donne così, oggi se ne trovano poche… Morì a Roma nel 1968.