Capire le ragioni della crisi
“Cara sinistra, è arrivato il momento di ripensare a te stessa ripartendo da Gramsci”, intervista a Donald Sassoon
Ripartire da Gramsci. Rivisitando, aggiornandole, alcune delle categorie fondanti del suo pensiero. L’invito viene da uno dei più autorevoli storici inglesi e della sinistra europea: il professor Donald Sassoon, allievo di Eric J. Hobsbawm
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Ripartire da Gramsci. Rivisitando, aggiornandole, alcune delle categorie fondanti del suo pensiero. L’invito viene da uno dei più autorevoli storici inglesi e della sinistra europea: il professor Donald Sassoon, allievo di Eric J. Hobsbawm, professore emerito di Storia europea comparata presso il Queen Mary College di Londra, autore di numerosi libri di successo. In una intervista di qualche tempo fa, Sassoon ebbe a dire: “La mia definizione di crisi, presa in prestito da Gramsci, è proprio quella di una condizione problematica da cui non si sa come uscire. Non si intravede lo sviluppo. Se il mondo è sempre più globalizzato e interdipendente allora bisognerebbe rafforzare le istituzioni transnazionali come l’Onu e l’Ue, ma in questo momento è una soluzione improponibile”. La sua frequentazione del pensiero gramsciano è a 360 gradi. “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Così scriveva Antonio Gramsci nella prigione fascista di Turi. Ed è proprio muovendo da questa intuizione che Sassoon, nel suo libro Sintomi morbosi. Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi si chiede quali sono oggi i segnali della crisi che sembra stia condannando al declino la civiltà occidentale.
Professor Sassoon, da storico della sinistra europea, cosa pensa possa essere ripreso oggi del pensiero di Antonio Gramsci?
Penso che questo sia il momento di rileggere attentamente Antonio Gramsci. Perché la situazione della sinistra in Europa, e parlo dopo la bruciante sconfitta di Siryza in Grecia e l’impossibilità di sloggiare Erdogan in Turchia, è messa male. Dovremmo cominciare a ricordarci che Gramsci non solo ha discusso di letteratura, di cultura, di filosofia, di intellettuali e di americanismo, ma ha soprattutto riflettuto e scritto cose importanti sulla crisi. Il che non deve stupire, visto che era in prigione e la sinistra era stata rovinosamente sconfitta e una serie di regimi autoritari si stavano imponendo in Europa. In Italia il fascismo era al potere già da qualche anno. Lui studia la crisi e soprattutto Gramsci riflette sulle cause della sconfitta, cosa che la sinistra ha smesso di fare da tanto, troppo tempo. Il punto non era accettare la sconfitta ma interrogarsi, scavando nel profondo, sui suoi perché. Perché è successo questo. E questo porta anche all’autocritica, esercizio salutare che nessuno ormai fa più. Si dà la colpa agli altri. Si cerca qualcosa o qualcuno su cui scaricare le responsabilità dei fallimenti accumulati, il popolo che non ha capito il messaggio, un destino cinico e baro, ma non è mai colpa della sinistra stessa. Gramsci è di altro spessore, personale e politico. Non si tratta di essere nostalgici, ma di avere il senso della storia e dei suoi protagonisti.
Un concetto forte del pensiero gramsciano è quello di “rivoluzione passiva”. Come lo declinerebbe oggi?
Anzitutto evidenziando la straordinaria attualità. Con una sottolineatura per certi versi ancor più inquietante riguardo all’oggi. All’epoca di Gramsci, la crescita dei regimi autoritari di destra aveva bisogno di eventi dirompenti, come una rivoluzione mancata, un colpo di Stato, l’esercito che si muove. Insomma, una rottura traumatica. Mentre oggi i partiti autoritari arrivano al potere in modo democratico. È vero che anche Mussolini e Hitler arrivarono al potere in modo democratico, nel senso che furono nominati primo ministro dalle autorità del tempo, il re nel caso dell’Italia, il presidente nel caso della Germania. Poi quei regimi sono diventati dittatoriali sul serio. Oggi invece Orban in Ungheria è stato eletto democraticamente e non ha cambiato in modo drammatico le regole del gioco. E lo stesso mi pare che si possa dire per Giorgia Meloni in Italia. Questo tipo di cambiamento, di “rivoluzione passiva” per usare il concetto gramsciano, è per molti versi ancora peggio. Perché non si può dire: questi sono arrivati al potere in modo non democratico. Questi sono stati eletti in libere elezioni. Scelti, non imposti con la forza.
Il che ci porta ad un altro concetto gramsciano di primaria importanza: quello di ”egemonia”.
Con il concetto di “egemonia” si è cercato di passare dall’idea della rivoluzione organizzata, nel senso quasi militare, il proletariato armato che si solleva, tipo Ottobre 1917, all’idea di “egemonia”. Ed è lì il problema principale.
Perché, professor Sassoon?
Le grandi lotte politiche oggi hanno sempre più i caratteri di lotte culturali. Queste lotte danno sempre più vincente la destra. La sinistra ha perso la battaglia per l’egemonia culturale. E oggi deve ripensare tutto. Sapendo che non può certo tornare indietro, avendo come riferimento un proletariato che non c’è più, almeno in Europa. In Gran Bretagna, ad esempio, primo paese industriale al mondo, gli operai di fabbrica sono ormai il 10%.
In tempi di democrazia dell’audience, e del personalismo leaderistico più esasperato, un concetto come quello di Gramsci sul Partito come intellettuale collettivo, è una eresia, un nostalgico riguardare al passato, oppure una scommessa da tentare?
Una scommessa che però è stata persa. Perché i partiti di oggi sono altra cosa da quelli di ieri. Sono molto più frantumati, meno forti e non hanno come dato connotante quello di diffondere le proprie idee ad altri. Facciamo un esempio classico. Negli anni ’50 Togliatti o Nenni parlavano ad una folla venuta ad ascoltarli, formata da persone, attivisti, simpatizzanti, già convinti. Il leader non doveva convincerli. Doveva spiegare loro come si fa a convincere gli altri. Gli attivisti, i militanti, gli iscritti al partito, tornavano in famiglia, nelle fabbriche, negli uffici, forti di alcuni degli argomenti dei leader. E li propagandavano ad altri con un linguaggio appropriato. Questo, oggi è impossibile.
Gramsci era anche un pensatore che riproponeva la forza di una visione internazionalista. Fermo restando che non si può riproporre quel tipo di orizzonte, tuttavia una sinistra che non ha un pensiero forte sul mondo non è destinata alla marginalità?
Si sta auto-emarginando perché non ha una visione del mondo. L’internazionalismo ai tempi di Gramsci era visto e vissuto soprattutto come solidarietà verso quello che forze affini facevano: i movimenti anti coloniali, contro le dittature, si pensi alla guerra civile in Spagna. Cosa vorrebbe dire essere internazionalisti oggi? Difendere i diritti umani? Ma questo, almeno a parole, lo fanno quasi tutti, a seconda dei paesi che si vogliono individuare. Gli Stati Uniti si lamentano dei diritti umani calpestati in Cina o in Russia ma non in Arabia Saudita o in Turchia. Questo è l’internazionalismo dei buoni propositi, peraltro praticato a corrente alternata. Il vero internazionalismo, a mio avviso, sarebbe quello di ripensare una globalizzazione che non sia solo uno sviluppo ulteriore del capitalismo, ma un’opera di rifondazione del mondo intero.
Da cosa partire?
Il riscaldamento globale. Contro il riscaldamento globale, tranne qualche pazzo, sono tutti: destra, centro, sinistra. Su cosa fare, quello è il difficile. E su questo che ci si divide. Ed è difficile intervenire perché le cause del riscaldamento globale sono alla base del successo del capitalismo. Siamo tutti diventati consumatori. Il numero dei consumatori aumenta in continuazione. Non possiamo certo dire ai milioni di cinesi o di indiani: non consumate. Ed è difficile in epoca di democrazia per un leader politico dire: se votate per me vi farò consumare di meno per salvare il mondo. Bisogna avere contezza che la lotta al cambiamento climatico potrebbe mettere a repentaglio consumi e crescita. Ma chi può dire che la de-crescita felice sia di per sé un male? Vale la pena discuterne.
Da docente universitario di prestigiosa carriera, se dovesse oggi motivare a un giovane studente perché leggere Gramsci, che argomentazioni userebbe?
Se qualcuno vuole capire il mondo, deve leggere i grandi classici, Gramsci e Marx ma anche, per dire, David Hume, Rousseau, Voltaire… Deve farsi una cultura. È un consiglio da vecchio. Ai miei studenti di dottorato dicevo di non leggere solo quello di cui si occupavano quando si avviavano alla carriera accademica. Non fate quelli che sanno tutto, che ne so, sulle lotte delle mondine in Padania, e basta. Bisogna avere una visione molto più globale.
E Gramsci può aiutare in questo.
Credo che Gramsci sia essenziale. Di tutti i grandi italiani, Gramsci è con Macchiavelli il più noto al mondo. L’unico che figura negli insegnamenti di teoria politica.