Governo in tilt

Tasse, diritti, migranti: la settimana nera di Meloni tra schiaffi all’estero e in “patria”

Editoriali - di David Romoli - 20 Maggio 2023

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Tasse, diritti, migranti: la settimana nera di Meloni tra schiaffi all’estero e in “patria”

Iniziata con la delusione di Ancona, molto più cocente di quanto la destra abbia fatto vedere dal momento che la conquista dell’ultima roccaforte rossa nelle Marche era data per quasi certa, la settimana di Giorgia Meloni è andata di male in peggio. Sino a comporre un bilancio fallimentare a tutto campo. Alcuni tasselli dello scuro mosaico sono più vistosi, altri vengono tenuti prudentemente circondati dal silenzio. È il caso, per esempio, della terza rata del Recovery Plan, 19 miliardi che avrebbero dovuto essere sbloccati il 30 aprile scorso e invece sono ancora congelati a Bruxelles, in attesa della sentenza della Commissione sulle correzioni apportate dall’Italia. Ieri il ministro Fitto ha assicurato che il governo “attende serenamente e fiduciosamente questa valutazione”.

La fiduciosa attesa si prolunga dal 28 febbraio. La rata avrebbe dovuto essere erogata allora. La commissione ha avanzato una serie di appunti e concordato con il governo la proroga di un mese, poi, alla fine di marzo, di un altro mese. Il governo è intervenuto su quasi tutti i punti segnalati da Bruxelles che infatti non ha chiesto la terza proroga. Però non ha neppure concesso quel semaforo verde che il 30 aprile Fitto assicurava essere in procinto di arrivare entro poche ore. Nel frattempo sono passati altri 19 giorni e di questo passo la terza rata rischia di essere ancora nel limbo per quando dovrebbe arrivare la quarta, il 30 giugno. Solo che anche quei 16 miliardi sono a forte rischio dal momento che, come sottolineato dalla Corte dei Conti un paio di settimane fa, il governo non riuscirà a centrare i 27 obiettivi da completarsi entro quella data. Insomma, il Pnrr è nel pantano e nulla giustifica l’ottimismo del governo, convinto che la Commissione permetterà quella “rimodulazione a 360 gradi” del Pnrr, cioè fuori di metafora una sua radicale riscrittura, che dovrebbe essere proposta entro il 31 agosto.

Poi c’è la riforma fiscale: è stata appena bocciata senza appello da Bankitalia. Tutta, non solo la Flat Tax che pure è il principale buco nero. Quando, in audizione alla Camera, la banca centrale specifica che la tassa piatta è “poco realistica per un Paese con un ampio sistema di welfare, soprattutto alla luce di vincoli di finanza pubblica”, dice che quel sistema è insostenibile senza smantellare il welfare o sforare di brutta i parametri. Quest’ultima strada, quella del debito, però è impraticabile e lo diventerà ancor di più quando, il primo gennaio prossimo, si chiuderà la lunga parentesi Covid e si tornerà ai parametri europei. Da quel punto di vista, se anche passasse la bozza di riforma delle regole proposta dalla Commissione e considerata troppo morbida dalla Germania, le cose per l’Italia sarebbero persino più difficili che con le vecchie regole. Ma le bordate di via Nazionale non si limitano alla Flat Tax. L’intera delega fiscale, in tutti i suoi aspetti, richiede copertureadeguate, strutturali e credibili” che in tutta evidenza Bankitalia ritiene inesistenti.

Subito prima dell’affondo sulla riforma fiscale era stato il turno dell’autonomia differenziata, massacrata dall’Ufficio di bilancio del Senato. Con la maggioranza sull’orlo della crisi di nervi l’incidente è stato non risolto ma camuffato prendendosela con la classica e misteriosa “manina”. Ma la nuda realtà resta quella puntualizzata dal dossier apparso e subito scomparso sul sito LinkedIn di palazzo Madama: l’autonomia differenziata è destinata a spaccare l’Italia in un Paese di serie a e uno di serie b. È un esito che persino per buona parte di FdI diventa sempre meno accettabile ma che per gli azionisti di maggioranza del Carroccio, i governatori del nord, è questione di vita o di morte del governo, come fa sapere senza mezze parole il potentissimo veneto Zaia. Insomma, l’autonomia differenziata, invisa alla maggioranza degli italiani, unico terreno sul quale Pd, M5s e Avs dovrebbero riuscire a fare davvero fronte, è una giungla vietnamita nella quale la premier non sa e non saprà come muoversi.

La settimana nera ha registrato una doppia sconfitta anche di Giorgetti a Bruxelles. L’Italia continua a negare la ratifica del Mes, facendo imbestialire tutti gli altri Paesi bloccati dal no di Roma. L’obiettivo è usare l’arma della ratifica per strappare quel che per l’Italia è davvero fondamentale: lo scorporo degli investimenti del Pnrr dal conto del deficit. Il ministro italiano dell’Economia ci sta provando ma ha già sbattuto contro il muro dell’omologo tedesco Lindner, che di scorporo di quegli investimenti, come di quelli per la transizione ecologica, non vuol proprio sentir parlare. In compenso insiste non solo per mantenere l’obbligo, previsto nella bozza di riforma, di rientrare di mezzo punto di deficit ogni anno, con un aggravio di 9 miliardi all’anno per l’Italia, ma anche per aggiungere l’imposizione di rientro annuale di un punto di debito. Per Roma sarebbe peggio che esiziale.

Le cose non vanno meglio sul fronte della seconda richiesta avanzata dall’Italia: la garanzia comune europea sui depositi, un passo da gigante sulla strada del debito comune. Anche lì niente da fare perché i frugali, con la solita Germania in testa, delle banche e del debito italiano non si fidano neanche un po’. Di qui al 31 dicembre, quando dovranno essere state definite le nuove regole oppure rientreranno automaticamente in vigore quelle vecchie chiudendo la parentesi Covid, ce ne corre. La partita è ancora tutta da giocarsi. Però sin qui l’Italia di Giorgia Meloni non ha toccato palla ed è stata anzi respinta su tutta la linea.

Il fiore all’occhiello della premier, in virtù della sterzata iper-atlantista che ha fatto dell’Italia “sovranista” il Paese più prono ai voleri di Washington che ci sia in Europa, è la politica estera. Ma anche qui non è che siano proprio rose e fiori. Quando nel consesso più autorevole e potente, quello del G7, la premier di un Paese si sente accusare a brutto muso da uno degli altri sei capi di governo, di violare i diritti Lgbtq+, è segno che la posizione di quella premier è molto più esposta e instabile di quanto non voglia far credere. O forse di quanto non s’illuda che sia.

20 Maggio 2023

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