Il 9 maggio si è celebrato il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo. Manlio Milani e Agnese Moro, su La Stampa, hanno saputo riempirlo di significati profondi, maturati anche attraverso la partecipazione a un percorso di giustizia riparativa finalizzato a superare la prepotenza subìta dalle vittime e agìta dai terroristi. Le loro sono parole autentiche. Attestano le potenzialità del «paradigma riparativo», ora introdotto nell’ordinamento dalla recente “riforma Cartabia”. La sua applicazione andrà seguita con attenzione a evitarne la torsione in un ben diverso «paradigma vittimario» (Giovanni De Luna) di cui è necessario pre-dire le insidie.
È il processo Eichmann celebrato a Gerusalemme nel 1961 a inaugurare l’era del testimone (martiris, in latino). L’esperienza della Shoah, dove i sopravvissuti allo sterminio sono del tutto innocenti e i criminali mostruosamente colpevoli, induce a immedesimarsi nella vittima. Fino ad attribuirle uno statuto speciale: creditrice di un debito inestinguibile, garantito da un enorme senso di colpa collettivo, oracolare, sottratta al contraddittorio. È l’unicità della Shoah a giustificarlo. Oggi, invece, identico status è riconosciuto alla vittima in quanto tale, di qualsiasi evento luttuoso a rilevanza penale.
Lo dimostra proprio la legge n. 56 del 2007. Il Giorno della Memoria è istituito «al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice» (art.1). Inevitabili le aporie in un sacrario così sterminato. Vi trovano posto i morti per caso (tutte le vittime di stragi lo sono) o i morti per errore (scambiati per l’obiettivo politico che non erano) o gli antagonisti politici uccisi mentre contestavano le istituzioni (militanti di gruppi extraparlamentari, ad esempio, o la radicale Giorgiana Masi).
Dunque, per il nostro ordinamento vittima è (potenzialmente) chiunque, per qualunque causa, anche a sua insaputa. Nasce da qui la proliferazione di Associazioni di familiari delle “vittime di” eventi di ogni tipo, benché tra loro incommensurabili: dell’immigrazione, ma anche della caccia; della mafia, ma anche delle sette religiose o del precariato. Un arcipelago abitato da gruppi in concorrenza tra loro (come le tante Associazioni di familiari di vittime della strada) o contrapposti tra loro (come l’Associazione tra familiari di vittime delle Forze dell’Ordine e le molte associazioni di familiari di vittime del Dovere).
In questo contesto – come osserva Luigi Zoja – la giustizia sociale non è più rimedio ai problemi dei gruppi svantaggiati, bensì a quelli delle vittime, che prendono il ruolo che fu dei sindacati: «ma mentre il diritto sindacale sorgeva da una contrattazione, quello “vittimario” si sottrae così al contratto sociale, rifacendosi a una condizione originaria e trascendente». Cambia anche la narrazione mediatica, che «non è quella del dibattito politico cui il pubblico partecipa, ma quella dello spettacolo del dolore, cui esso si limita ad assistere». Non a torto, Tamar Pitch denuncia nel discorso pubblico la sostituzione della parola «oppressi» con quella di «vittime».
Così declinato, il paradigma vittimario compone un puzzle in cui tutte le vittime lo sono in egual misura. Ma ciò ha un senso sul piano della pietas umana, non su quello della ricostruzione storica o giudiziaria. Azzerando le differenze, infatti, si nega l’identità di ciascuno e si fraintende l’accaduto, come lamenta giustamente Manlio Milani: «gli otto caduti in Piazza della Loggia sono inscritti oggi, insieme a tutte le vittime dei terrorismi, rosso e nero, nel patrimonio comune della storia repubblicana. Non posso più neanche chiamarli “compagni”». Le vittime di Brescia, infatti, sono morte per il loro impegno antifascista. Se poi tutte le vittime sono eguali, allora hanno anche identica voce in capitolo. Eppure non cantano in coro, come rivela la dolente memorialistica sugli anni di piombo di Mario Calabresi, Gemma Capra, Massimo Coco, Silvia Girallucci, Sergio Lenci, Giovanni Moro, Eugenio e Vittorio jr. Occorsio, Licia Pinelli, Benedetta Tobagi. È una cacofonia che non sorprende, perché del tutto personale è la memoria dei propri lutti e delle proprie ferite: per alcuni è un rapporto riappacificato, per altri è fonte di un rancore inestirpabile, che inchioda a un passato che non passa. Proprio in questi casi la voce delle vittime si salda con lo spirito del tempo dominato dal risentimento, che è il carburante del populismo penale. Così la sua retorica securitaria trova il giusto tono intimidatorio a sostegno di una politica pan-penalista, che incrementa pene e reati elevando il paradigma vittimario a «instrumentum regni» (Daniele Giglioli).
Tutto ciò può aprire a preoccupanti derive. Eccone due esempi, estremi e urticanti. Negli USA la pena di morte si è emancipata dalla sua natura di vendetta privata per mano pubblica. Oggi si giustifica con un più civile ed evoluto scopo terapeutico, quale «modo per ripristinare il benessere collettivo e fornire una chiusura psicologica alle vittime traumatizzate» (David Garland). È una metamorfosi insidiosa. Ne fa un servizio che la comunità statale deve alle vittime. Non ha più nulla di patibolare, trasformata d’incanto in una moderna terapia di sostegno. Ecco l’altro esempio. Se la giustizia deve farsi carico anche della vulnerabilità di vittime potenziali, ben potrà bilanciarsi la dignità del torturato con quella degli innocenti in pericolo, che solo le informazioni estorte con la violenza potranno salvare. Trasformato così il torturato da vittima certa in aggressore di vittime ipotetiche, ogni argine può saltare: «Un uomo ammette d’aver piazzato una bomba? Il ricorso alla tortura salverà delle vite. Un uomo è sospettato d’aver piazzato una bomba? La tortura lo scoprirà. Un uomo ha un amico sospettato d’aver piazzato una bomba? La tortura porterà a individuare il sospetto. Un uomo professa idee pericolose e potrebbe avere in mente di piazzare una bomba? La tortura rivelerà i suoi piani».
I sintomi di un uso strumentale del paradigma vittimario sono anche altrove. Per la politica, ad esempio, c’è vittima e vittima. Si spiega anche così la faticosa e tardiva introduzione dei reati di depistaggio e di tortura: la solidarietà per le vittime perde di peso davanti alla volontà dello Stato «restio a lasciarsi mettere sotto accusa» (Benedetta Tobagi). Sul paradigma vittimario poggia anche lo stigma verso leggi di amnistia e indulto, accusate di provocare una vittimizzazione secondaria. Nel discorso pubblico, infatti, la clemenza va subordinata al perdono delle vittime. Eppure il perdono è una categoria metagiuridica: non è un dovere della vittima (perché inesigibile), né un diritto del reo (perché è altra cosa dalla riabilitazione sociale). Il perdono è una predisposizione dell’animo di chi lo concede e di chi lo riceve («per-dono»), impermeabile al diritto positivo. Alcune vittime, infine, scompaiono dall’orizzonte politico. Ad esempio, quando si tratta di rimediare al sovraffollamento carcerario (perché la vittima è il carnefice) o quando si nega l’introduzione del reato o dell’aggravante di omo-transfobia. Forse che certe vittime sono figlie di un dio minore?
Tra i due paradigmi, riparatorio e vittimario, il confine è sottile ed esposto a pericolose scorribande. Va presidiato da chi ha a cuore la matrice laica, liberale e garantista del diritto penale. Ecco perché i sentimenti di giustizia delle vittime, sole o associate, certamente «devono ricevere il riguardo sincero e non ipocrita della legge. Ma non sono la legge, né la sua fonte d’ispirazione. Quando provano un desiderio di punizione, rivendicano un carcere più duro, pensano alla galera come a un luogo di espiazione, hanno torto, il più umano dei torti, ma torto. Chi, nel mondo politico, se ne fa un alibi in favore dell’afflizione carceraria e dell’inerzia sul ruolo del carcere ha torto, il più losco dei torti» (Adriano Sofri). Sottoscrivo.