La posizione dell'Italia vassalla di Washington
Ucraina: la pace appesa ai diktat di Trump e agli asset russi, dietro la morsa di Berlino la crisi del governo Meloni
Il summit tedesco fa palpitare la premier. Che in caso di accordo sarebbe celebrata come mediatrice tra Usa-Ue, e in caso di fl op come cavallo di Troia di Trump
Esteri - di David Romoli
A Berlino il barometro diplomatico è impazzito. Oscilla tra un estremo e l’altro, tra la profezia del fallimento e improvvisi sprazzi di ottimismo che inducono anche qualche equivoco: il capo delegazione ucraino Umerov dice che l’accordo alla fine potrebbe essere raggiunto e le sue parole vengono trasformate in rosea prospettiva della firma entro la giornata. Seguono smentita e pioggia di nuovi segnali, stavolta negativi.
A Roma l’attenzione di tutti è calamitata dal quel pendolo. La cena tra i leader con Zelensky e quasi certamente i negoziatori americani Witkoff e Kushner, il vertice dei Volenterosi intorno alla tavola imbandita, è fissato per la serata e la premier ha in programma l’arrivo a Berlino. Ma Palazzo Chigi ci tiene a far sapere che già da domenica la diplomazia della presidente, incarnata nella persona del suo consigliere Fabrizio Saggio, è all’opera nel tentativo di strappare un risultato che al momento sembra ancora lontanissimo: “Confermare la coesione tra europei, ucraini e americani per consolidare il processo negoziale”.
- Ucraina, dai negoziati a Berlino speranze per Kiev: per gli Usa intesa vicina su Kiev nell’Ue e garanzie di sicurezza
- Pace o disastro, sull’Ucraina Meloni spera in Zelensky: per il governo il prolungarsi della guerra sarebbe una iattura
- Zelensky confida in Meloni per salvare l’Ucraina: ma mentre la premier media, il ponte tra USA e UE rischia di crollare
Che la premier palpiti per l’eventuale pace è ovvio. Ma in ballo per lei c’è molto di più. Se la mediazione avrà successo le sue quotazioni in Europa e sull’intero palcoscenico occidentale s’impenneranno. Se fallirà precipiteranno. In Europa è l’ultima voce di un certo peso a insistere per evitare la rottura con Trump. Il partner dei mesi scorsi, il cancelliere tedesco Merz, sembra essere passato decisamente dalla parte opposta e anzi pare la voce più determinata nel gruppo dei falchi. Ma Giorgia ha scommesso troppo sulla missione di tenere insieme le due sponde dell’Atlantico per poter fare passi indietro. Proprio perché così isolata se alla fine, grazie all’accettazione da parte dell’Ucraina delle condizioni fissate da Trump, o almeno di quasi tutte, si arriverà all’accordo l’intera Europa si genufletterà grata e Meloni starà appena un passo dietro il presidente americano ad accogliere il grazioso omaggio. In caso contrario si appunteranno su di lei tutti i sospetti e le diffidenze che aveva saputo fugare, da prima ancora di vincere le elezioni, proprio grazie a uno schieramento quasi da pasdaran a fianco di Kiev.
La partita non è chiusa ma i segnali di quel cambio di umore europeo nei confronti dell’inquilina di Palazzo Chigi è già palpabile. L’Italia è l’unico grande Paese che non nasconde dubbi e perplessità, per non dire franca contrarietà, alla scelta sponsorizzata da tutti gli altri a Londra, Parigi, Berlino e Bruxelles: confiscare i beni russi depositati in Belgio per elargire all’Ucraina il cospicuo prestito di cui ha bisogno senza dover pesare sui bilanci dei Paesi europei. Non subito, più precisamente, perché nella praticamente certa ipotesi di una mancata restituzione del prestito da parte dell’Ucraina quei bilanci sarebbero toccati eccome. È una delle ragioni per cui l’Italia punta i piedi, la più monetzzabile e la più confessabile, dal momento che la faccenda è davvero un ginepraio giuridico ad altissimo rischio. Però non è l’unica ragione che spinge Roma a opporsi, o almeno a provarci.
Di mezzo c’è appunto la politica. La confisca sotto spoglie di “prestito forzoso” degli asset russi non è solo uno schiaffone ai confini del casus belli con Mosca. È uno sgarbo di portata plateale rivolto anche a Trump, che interpreterebbe il gesto come un siluro contro la sua proposta di pace, o il suo diktat che dir si voglia e contro la sua corsa al Nobel per la pace. Avendo Giorgia legato le sue sorti in maniera ormai quasi indissolubile alla coesione tra Usa e Ue non può fare altro che insistere perché il passo della confisca venga almeno rinviato. Per Bruxelles la spina italiana è fastidiosissima. Il Paese da convincere in realtà è il Belgio perché lì stanno quei 185 miliardi e dunque quello è il Paese che rischia di più se qualche corte internazionale darà ragione a Putin, e non lo si può affatto escludere. Di conseguenza le pressioni sul Belgio sono martellanti da giorni. Va da sé che la malleabilità dei belgi dipende in gran parte dal loro isolamento e poter contare sul terzo Paese dell’Unione, l’Italia, sortisce l’effetto opposto.
La rottura dell’asse atlantico sarebbe per Giorgia un guaio enorme anche in casa. L’accordo con la Lega sulla proroga del decreto sulle armi per Kiev è vicino ma è significativo che stavolta Salvini ponga condizioni. Sin qui si era sempre arreso sbraitando ma senza ottenere niente. Stavolta chiede segnali di discontinuità. In concreto vuole che le proroghe diventino trimestrali e non più annuali, per stare dietro in tempo reale al processo di pace, e che si metta nero su bianco che si forniranno sempre e solo armi difensive. Per ora il successo della mediazione è scontato in anticipo: nessuno vuole la crisi di governo. Ma se si arriverà alla rottura conclamata tra Usa ed Europa tenere insieme i trumpisti di Salvini e gli europeisti di Tajani diventerà molto più difficile.