Consigli non richiesti da Via Solferino

Paolo Mieli mette l’elmetto e fa lo spin doctor di Schlein: “Vola in Ucraina e sabota la pace con la Russia”

L’editorialista consegna sul Corriere alla segretaria del Pd la sua personale ricetta vincente: ovvero far naufragare i negoziati tra Mosca e Washington in nome di una “pace non ingiusta”

Politica - di Michele Prospero

7 Dicembre 2025 alle 07:00

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Foto Mauro Scrobogna /LaPresse
Foto Mauro Scrobogna /LaPresse

In quella ottava bolgia dantesca che ha sede a Milano in via Angelo Rizzoli n. 8, dentro il toro di rame infuocato presente in redazione c’è posto per ogni tipo di consigliere fraudolento. Con il nuovo editoriale di supplica alla segretaria del Pd affinché rifiuti il progetto americano di pace, Paolo Mieli ha conquistato un posto d’onore tra quanti si distinsero in vita per aver dato un “consiglio frodolente”. Come il conte Guido da Montefeltro era abile nel combinare la guerra (“fé di Franceschi sanguinoso mucchio”) e l’inganno (“l’opere mie/ non furon leonine, ma di volpe”), così l’editorialista del Corriere è molto astuto nel mescolare la dura condanna dell’avversario (la storica lotta al professionismo politico) e la seduzione del raggiro (sotto forma di suggerimento fallace).

Per indurre Elly Schlein alla perdizione, Mieli all’inizio la lusinga difendendola dagli “ex di tutto” che nel partito la reputano inadeguata. Poi, a fronte dell’investitura non competitiva come leader dell’opposizione (le primarie si rivelano nient’altro che un arnese per “levarsela di torno”), le chiede in cambio due favori. In primo luogo, Schlein dovrebbe regalare alla destra il premio di maggioranza che Meloni ha in serbo allo scadere della legislatura. In aggiunta, perché il suo carisma fiorisca è necessario che voli immediatamente a Kiev. Lì potrà abbracciare il cerchio magico presidenziale in manette e farsi paladina della pugna continua al fianco dei Volenterosi e dell’ammiraglio Cavo Dragone ringalluzzito per l’attacco preventivo da sferrare alla Russia.

Come Guido aveva il gusto per “li accorgimenti e le coperte vie”, così Paolo coltiva la forza dell’ambivalenza quale stratagemma per accarezzare e infilzare. Sorte vuole che entrambi finiscano per essere intrappolati dai capricciosi giochi della dissimulazione da loro medesimi attivati con eccessiva destrezza. Allorché espresse il parere insidioso, il conte cadde vittima delle sue macchinazioni, che lo fecero stramazzare ai piedi di uno ancor più scaltro nei tranelli (“il gran prete, a cui mal prenda!”). Mieli stesso, dopo aver diretto ben due cruente operazioni speciali, prima a rimorchio delle manette di Tangentopoli e dopo contro “la casta” concentrata nell’Unione prodiana (il best seller di Rizzo e Stella uscì per Rizzoli), ha dovuto registrare il crollo dei suoi piani artificiosi.

L’inchiostro adoperato con callidità per rinverdire le ambizioni di Agnelli e infine del duo Montezemolo-Calenda, nessuno dei quali riesce col tempo “a guarir de la sua superba febbre” di potere, è costretto ogni volta ad arrendersi dinanzi alla supremazia di altri sagaci appetiti (in successione Berlusconi e Grillo). Ora Mieli non intende figurare come un aperto frondista contro la presunta deriva estremista del Pd. Perciò finge di blandire Schlein, la quale deve però compiere una mossa risolutiva: con l’elmetto ben adagiato sul capo, abbozzando il “piccolo passo che ancora le manca” (il passo dell’oca) troverebbe un’acclamazione popolare. Combattendo il “malumore tra una parte dei suoi”, la segretaria del Pd dilagherebbe alle elezioni se solo si precipitasse “in un teatro a Kiev sotto i bombardamenti” per garantire appoggio eterno alla strategia che mina qualsiasi proposta di negoziato. Con il diktat mieliano di “una pace non ingiusta”, tuttavia, il Nazareno non soltanto chiuderebbe ogni velleità di campo largo, ma diventerebbe complice delle manovre per la terza guerra mondiale.

Maestro consumato di finzione, Mieli dipinge come una marcia trionfale quella che è invece una incauta corsa verso il baratro. Con una prosa priva di verità, assicura addirittura di essere nemico giurato di Monti e Draghi e maledice tutti i “governi finto emergenziali” che “hanno funestato gran parte del passato decennio” con le loro deleterie “spurie coalizioni”. Il fumo utilizzato da Mieli per annebbiare le menti dei politici si avverte subito poiché il modello di grandezza che Schlein dovrebbe imitare risiede nel “raccogliere quell’ultima bandiera che fu di Enrico Letta”. Va bene l’arte del mascheramento sleale (non fu proprio il giovane Letta in Aula a recapitare a Monti un imbarazzante bigliettino di soccorso e, nel 2022, a brandire l’agenda Draghi come una Bibbia con cui respingere i grillini traditori alle urne?), ma da quando gli sconfitti meritano così tanta gloria?

Di recente Mieli si era dichiarato pentito per l’esito catastrofico di alcune campagne antipolitiche che videro la sua fatica di raffinato ingegno naufragare al cospetto di una furbizia major. Nel bel mezzo del populismo galoppante, aveva accennato discorsi che suonavano come un (tardivo) ravvedimento. Anche a lui era toccato ammettere che “ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe, /e pentuto e confesso mi rendei”. Ma il male antico è riapparso e l’odio per la sinistra lo ha ricacciato nel vizio più recondito (“mi rimise ne le prime colpe”). Preannunciando a Elly Schlein un sostegno generoso, con impegni che tanto non potrà mantenere (“lunga promessa con l’attender corto”), egli mostra di non essere mai guarito dal malvezzo del “consiglio frodolente”, reiterato ovunque si palesi qualcosa dalle tonalità vagamente rosse.

E così, mentre fa opera di contrizione, Mieli ci ricasca e scivola in chiare aporie argomentative (“né pentere e volere insieme puossi/ per la contraddizione che nol consente”) quando predica una vittoria certa da ottenere sfilando sulle orme del segretario sceso da Parigi. Schlein dovrebbe ribattere semplicemente: “Forse tu non pensavi ch’io loico fossi!”. E che quindi la dimestichezza con la vecchia logica le permette di non abboccare all’invito a condividere l’identico mortifero destino del predecessore. In un’Europa in declino, ridotta a terra in cui “tra tirannia si vive e stato franco”, pace è la parola assente. Lanciando la sfida del dialogo e della diplomazia in risposta al bellicismo della cieca classe dirigente liberale (“non è, e non fu mai, /senza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni”), perderebbe il supporto di Mieli e del metapartito della élite transatlantica ma scalderebbe la passione di ampi settori di popolo che non hanno più rappresentanza.

7 Dicembre 2025

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