Caos Medio Oriente
Intervista a Bobo Craxi: “Quella di Israele una strategia del terrore, sta tornando la banalità del male”
«L’uccisione di Haniyeh? Non capisco chi anche tra i democratici si esalta per un’esecuzione illegale. L’Italia sul Medio Oriente? Posizione anchilosata, disconosce il ruolo passato»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Una passione, quella per la politica internazionale, che perdura nel tempo e che va oltre gli impegni di governo ricoperti in passato (è stato sottosegretario agli Esteri con delega ai rapporti con l’Onu nel secondo governo Prodi). Ora il Medio Oriente è in fiamme. L’Unità ne discute con Bobo Craxi.
“Colpiremo ovunque i capi di Hamas”. È la guerra di annientamento rivendicata e praticata da Benjamin Netanyahu con l’uccisione a Teheran del capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Una risposta dell’Iran è questione di ore. Il Medio Oriente è una polveriera pronta a esplodere.
In scala più grande si ripete una prassi che fu già eseguita ai tempi nei quali era l’organizzazione clandestina per la liberazione della Palestina l’obiettivo da smantellare. Non essendo un conflitto tradizionale esso persegue le vie anche più impervie destrutturando, ignorandolo, il Diritto Internazionale anche in materia di conflitti. È una strategia del terrore compiuta nella convinzione che eliminando i capi politici di un’organizzazione classificata come “terroristica” si elimini il problema alla radice e si scongiuri qualsiasi riproduzione del tema. L’errore politico sta nel credere che le cose stiano così. Non riesco a cogliere sino in fondo coloro che, anche fra democratici specchiati, si esaltano dinnanzi ad una esecuzione illegale. È “la banalità del male”, descritta da Hannah Arendt, che ritorna anche nel nostro secolo.
Nel corso degli anni, Israele ha eliminato diversi capi di Hamas, a partire dal fondatore del movimento islamista palestinese, sheikh Ahmed Yassin. Ma Hamas ha continuato ad esistere.
C’era una canzone dei maquisard francesi, (i partigiani) che diceva “Ami, si tu tombes, Un ami sort de l’ombre, Prend ta place…” (Quando un amico cade un altro amico esce dall’ombra e prende il suo posto). Sarà inevitabile. Malauguratamente, per chi vuole guardare le cose dal punto di vista di Israele, sarà così. E la battaglia di sopravvivenza, di entrambi, proseguirà se non torna la politica democratica. Il problema di fare riemergere all’interno della Palestina una classe dirigente più forte, rappresentativa degli interessi reali del popolo, esiste. Ma in queste condizioni la frustrazione genererà fertilizzante per il terrorismo e pane per i denti di chi strumentalizza la loro lotta. Hamas usa la strategia del terrore, ha alle spalle – come si vede – potenze medie dell’area che la sostengono, non ha una strategia politica degna di questo nome, un misto di nichilismo e fanatismo. Il problema è che chi la vuole stroncare è affetto dalla medesima impostazione culturale e politica. C’è un tentativo di rinnovamento all’interno dell’Autorità nazionale palestinese che va incoraggiato, non si capisce tuttavia se una ripresa di un dialogo di pace stia nell’agenda di Israele.
C’è chi sostiene, dentro e fuori Israele, che la guerra è una sorta di assicurazione sulla vita politica per Netanyahu. Con la speranza che a novembre, nelle elezioni presidenziali americane, a vincere sia l’amico e sodale di “Bibi”, Donald Trump. È una lettura forzata?
Dietrologie se ne possono fare molte. Certo che l’assenza sul terreno della persuasione internazionale all’obiettivo della ripresa di un processo di assestamento pacifico della crisi aiuta ed alimenta soltanto gli elementi più radicali. Che il vuoto di potere statunitense rappresentasse un’opportunità per il radicalismo di Netanyahu era scontato. Ora noi dobbiamo guardare le cose prescindendo dall’orientamento ideologico degli uomini politici in campo, siano essi nazionalisti radicali, che fondamentalisti religiosi. La domanda che l’intera comunità internazionale dovrebbe fare ad entrambi è: ma questa condotta trascinata nel tempo a chi conviene? Siete così sicuri di non essere utilizzati per scopi che non hanno nulla a che fare con la sicurezza di Israele ne tantomeno con la prospettiva di un’entità statuale palestinese? Posto che il primo obiettivo ed il secondo sono stati parimenti riconosciuti da tutti gli statements della comunità internazionale che invoca il cessate il fuoco per raggiungere entrambi gli obiettivi.
Quando non si sa dove andare a parare, e non si è un ultrà d’Israele, si ritira fuori la soluzione a due Stati. Ma vista la colonizzazione senza freni della Cisgiordania, dove ad oggi vivono oltre mezzo milione di israeliani, dove dovrebbe e potrebbe sorgere questo ipotetico stato di Palestina?
Nonostante quello che si possa pensare le conversazioni avviate fra gli stessi israeliani e i paesi arabi, già concernevano il dopo conflitto. C’è un problema di ricostruzione di Gaza, della gestione del territorio che non può essere affidata ad una nuova occupazione né tantomeno agli antichi affidatari della Striscia. C’è un problema di interposizione militare di una forza multinazionale, di gestione del valico di Rafah, di disarmo delle milizie. Ma questa bonifica della situazione non potrà che avvenire se l’unica forza in campo armata resta quella di Israele, se le sue operazioni di “polizia” si traducono come si sono tradotte in bombardamenti indiscriminati che hanno condotto i loro capi dinnanzi all’Alta corte internazionale, è necessario il cessate il fuoco ed il ritiro delle truppe dalla Striscia. Torna quindi ad essere la politica la protagonista di questa fase.
In quale direzione dovrebbe muoversi?
Sarebbe importante che i due grandi player internazionali giocassero un ruolo assertivo, che grandi forze politiche e religiose esprimessero la loro capacità di persuasione. Sono abbastanza stupito del mezzo disinteresse cinese, per esempio, immagino che il comunismo a cui fanno riferimento non si traduca soltanto nel rigore del controllo del loro paese e nell’interesse a vendere transistor nel mondo. Il Medio Oriente è un’area naturale di sviluppo del prossimo Mondo, impossibile immaginare che non possa esistere la convivenza fra la popolazione ebraica e quella araba. La nuova Yalta che si auspica, grazie all’avanzamento della nostra civiltà potrà essere meno approssimativa rispetto ad un secolo fa. Questo è l’auspicio. La soluzione territoriale nella sicurezza è sempre alla portata.
In questo scenario denso di incognite e di venti di guerra, che ruolo gioca l’Iran?
L’Iran ha interpretato l’omicidio di Haniyeh sul suo territorio come un vero e proprio affronto; ha rivelato le sue debolezze sul piano della sicurezza interna e ha dovuto subire una violazione territoriale proprio nelle settimane successive l’elezione del nuovo Presidente a testimoniare la sfiducia e l’ostilità con la quale è stata accolto. La risposta politica è stata netta e, dal punto di vista del diritto internazionale, anche ben motivata. Invocano una condanna internazionale per la violazione della Carta delle Nazioni Unite, minacciano ritorsioni. L’impressione è che sia una potenza di argilla che muove la causa palestinese per tentare di assumere la guida del mondo islamico che gli è contesa da altre potenze dell’area, Turchia compresa. Che alla stregua del governo israeliano agita questioni internazionali per mantenere il pugno di ferro sulla situazione interna. Bisognerebbe però capire e discutere con essi. Qual è la percezione che hanno dell’Occidente democratico e dei suoi valori? Probabilmente ne hanno una sbagliata e non aprendosi ad esso condannano il loro popolo ad un isolamento perenne, ad un conflitto permanente che sarà in definitiva la ragione principale della loro decadenza.
Un tempo, l’Italia aveva voce in capitolo nel vicino Oriente. Quanto meno veniva ascoltata. Ed oggi?
C’è una bella canzone che, riferendosi agli abusi di potere, parla di un uomo sconsolato a cui va “l’anima in pena” a tal punto che vien voglia di “menar le mani”. Molti italiani hanno reagito in questo modo riferendosi alla condizione dei palestinesi e chi, dopo il 7 ottobre, agli inaccettabili patimenti israeliani per i morti e per gli ostaggi. È così che il nostro dibattito pubblico si è incanalato verso un’improbabile disputa ottusa e senza sbocco che ha lesionato la nostra stessa tradizionale cultura di comprensione della complessità di questo conflitto. Il governo ha avuto sin dall’inizio una postura ferrea a difesa delle ragioni di Israele, il che ha impedito di sviluppare qualsivoglia iniziativa di dissuasione o mediazione. Tranne in qualche risoluzione parlamentare che non mettesse a rischio il vincolo atlantista. La stessa opposizione non è compatta, le sensibilità anche nella sinistra son diverse, quella dei Cinque stelle non saprei, perché prevale sempre una visione radicale che considero disutile agli obiettivi che devono essere sempre ragionevoli e possibili. Anziché usare la nostra presenza in Medio Oriente, in Libano, per muoversi politicamente, il nostro problema oggi pare essere quello di avviare gradualmente il ritiro delle nostre forze armate in missione internazionale per conto delle Nazioni Unite. Diciamo che quella dell’Italia è una posizione anchilosata, che tendenzialmente disconosce il nostro ruolo del passato non comprendendo che quello dell’epoca fu il periodo più alto del protagonismo della nostra politica estera nel Mediterraneo e che molti arabi continuano a rimpiangere e di cui spesso sento dire che ne invocano il ritorno. Non saprei dire fino a che punto gli interessi delle nostre industrie belliche abbiano influenzato questa posizione inerte. Noi dobbiamo fare i conti in generale con la nostra progressiva perdita di peso ed autorevolezza ma ciò non toglie che verso l’Italia e gli italiani vi è sempre una grande aspettativa e noi dovremmo esserne all’altezza.