Il report Istat
Record di poveri, crescita zero: l’Italia affonda, la politica divaga
Nessuno parla in campagna elettorale dei dati Istat, i quali fanno luce su un Paese finito nella palude a causa di bassi salari e posti di lavoro scadenti
Editoriali - di Massimiliano Iervolino
In una campagna elettorale noiosa, dove i più parlano di cose che nulla c’entrano con l’Europa, c’è voluta l’Istat, con il suo rapporto annuale, a ricordarci chi siamo e dove andiamo.
Nulla di nuovo per carità. Problemi noti e stranoti. Tuttavia è utile di nuovo metterli a fuoco nella speranza che qualcuno se ne occupi. Tant’è che in un contesto dominato più dai social media manager che da politici di razza, dove la velocità di risposta è tutto a discapito dello studio, della lettura e degli approfondimenti, l’ennesimo allarme dell’Istat è già stato archiviato.
Ma vediamo le cose più importanti che sono uscite fuori da questo rapporto. La crescita del nostro Paese è tornata ai livelli del 2007 (pre-Lehman Brothers) con quasi tre lustri di ritardo in confronto a Francia e Germania. Abbiamo un divario a livello di crescita di più di 10 punti con la Spagna, di 14 con la Francia e di 17 con la Germania. Il tutto in quindici anni.
I lavoratori che hanno un basso stipendio hanno raggiunto la quota di 4 milioni e 400 mila, negli ultimi otto anni sono cresciuti di 466 mila unità. Le categorie con il lavoro più povero sono quella dei giovani, delle donne e degli abitanti del Mezzogiorno.
Quindi anche chi ha un lavoro è a rischio povertà, tanto è vero che l’8.2% degli occupati è vicino alla soglia di indigenza a causa dei salari bassi e impieghi di bassa qualità.
Intanto in totale siamo arrivati ad una quota pari a 5,75 milioni, il 9,8% della popolazione, che vivono in povertà assoluta, percentuale più alta registrata negli ultimi 10 anni.
Il Report Istat 2024, inoltre, dimostra il fallimento delle politiche di coesione. Il Mezzogiorno d’Italia è ancora molto lontano dal Nord, mentre il Centro si indebolisce tant’è che diventa sempre più una zona d’Italia simile al meridione che al settentrione. La parte centrale del Paese, infatti, è quella che rimane più distante dai livelli di Pil del 2007, quando era a 8,7 per cento, così come si evince da altri dati.
Questo quadro desolante è frutto di politiche sbagliate, sia di centro destra che di centro sinistra. Un disastro tale non può essere causato da un solo Governo ma è la conseguenza di decennali errori e di una serie impressionanti di mancate riforme.
Nonostante i buoni risultati degli ultimi tre anni, l’Italia continua ad avere una bassa crescita. Diversi sono i fattori che impattano negativamente: elevata corruzione, grande presenza della criminalità organizzata, alta evasione fiscale, alta tassazione, calo demografico, elevata burocrazia, mal funzionamento della giustizia civile, grande divario nord sud, nanismo di impresa ed elevati costi di produzione.
La bassa crescita, l’elevata povertà e i bassi salari sono dovuti essenzialmente ad una politica industriale che non esiste e alla presenza nel nostro Paese di microimprese, le quali – con meno di 10 addetti – sono poco meno di 4 milioni e rappresentano il 94,8% di tutte quelle attive.
Il cosiddetto “piccolo è bello” fornisce una produttività molto bassa e degli investimenti scarsi. Fondare la propria economia sulle minute imprese familiari ha diverse conseguenze: non si contribuisce alla ricerca e sviluppo, si richiede meno capitale umano e quindi meno istruzione e formazione, si ha più facilità a evadere e si accelera la fuga dei cervelli all’estero.
I rapporti annuali dell’Istat fotografano una situazione che peggiora sempre di più, ed è il motivo per cui moltissimi italiani non votano. Alle ultime politiche 17 milioni di persone non si sono recati alle urne e alle elezioni regionali ormai solo uno su due ritira la scheda elettorale. Ma la politica continua a non tenerne conto. Eppure siamo di fronte ad un enorme problema, che mina la tenuta democratica del nostro Paese.
Così si va a sbattere.