La mostra dell'artista

Nicola Vukich, un artista straniero ovunque ma di casa dappertutto

Via Gemignani era la tua culla, quei condomìnî schiantati, le case dei profughi istriani dov’eri nato. Livorno, con la sua piccineria, era il tuo inferno. Dovevi andar via, ti avrei dovuto portar via, come quella volta che ti ho rapito da un Tso e ti ho portato in Senegal e non volevi più tornare

Cultura - di Paolo Virzì - 4 Maggio 2024

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Nicola Vukich, un artista straniero ovunque ma di casa dappertutto

Questo testo l’ho scritto pochi minuti dopo aver ricevuto da mio fratello Carlo il messaggio con la notizia della tragedia, l’anno scorso, mentre ero sul set a Ventotene.

Nicola, cos’hai fatto?
Amico mio, fratello mio, figlio mio. Volevi provare a volare? Sei sempre stato il più bravo, il più sensibile, il più bello.

Anche dopo esser impazzito, che puzzavi di farmaci e di vino e di ascelle e di piedi sudici e dell’immondizia dei cassonetti, dove una volta ti sei chiuso a dormire per mettere alla prova chi ti voleva bene: mi abbracceresti anche così? Mi ameresti anche così?

Eri elegante nella tua follia, aggraziato in ogni istante della tua sofferenza. Artista in ogni tuo gesto, nei dipinti stupendi, nei mosaici di vetro e specchio, nelle canzoni tra Conte e Capossela, nello scrivere e scrivere innumerevoli smisurati torrenziali romanzi, a cavallo tra la letteratura sperimentale e la confessione più sfacciata, nel disegnare pisciando contro i muri: ogni schizzo un geniale scarabocchio.

Via Gemignani era la tua culla, quei condomìnî schiantati, le case dei profughi istriani dov’eri nato. Livorno, con la sua piccineria, era il tuo inferno. Dovevi andar via, ti avrei dovuto portar via, come quella volta che ti ho rapito da un Tso e ti ho portato in Senegal e che non non volevi più tornare. E infatti sei rimasto lì, per un tempo lunghissimo.

È dovuto venire qualcuno da Livorno a riprenderti. Ma ti sei portato dietro, dentro, qualcosa di quelle decorazioni primitive delle loro stoffe, dei loro paesaggi, e chi conosce e ama la tua arte a volte ha visto affiorare un esprit primitivista africano.

Così come il tuo idolo Dedo Modigliani aveva potuto assorbire solo a Parigi certe visioni, invece tu te ne eri immerso, col tuo corpo esile, pallido, spennacchiato, confuso, sballottato, tra smisurate folle di corpi neri dalle cento etnìe, sopraffatto da quelle fragranze dolci, da quella magia e da quella violenza. Tu stesso ti sentivi di un’etnia speciale, diversa, che teneva insieme l’Albania, il Kosovo, la Croazia, il Granducato di Toscana. Straniero ovunque, di casa dappertutto.

Eri il fratello del mio fratello Carlo, il terzo figlio di Franca, che ti amava teneramente e tra le sue braccia a volte ti piaceva trovare sollievo. Quanto dolore nelle ultime lettere che mi hai scritto quest’anno: i farmaci che non servivano più, il rimpianto di una vita che ti sembrava già finita.

L’ultima volta, qualche giorno fa, non ti ho risposto. Avevo da fare, da lavorare, da girare un film. Ho pensato: tanto quando vado a Livorno lo abbraccio e gli compro cinque o sei dei suoi quadri. Ne ho la casa piena, saranno sempre con me, come il ricordo della creatura stupefacente che sei stato.

Ciao Nicola, ciao angelo che ha provato a volare dalla Fortezza Vecchia. Non ce l’ho con te, ti perdono per questo brutto scherzo, Carlo ed io ti perdoniamo. È stato l’ultimo gesto liberatorio di un artista immenso, che non sopportava più il dolore feroce, la frustrazione di sentirsi inutile, che non voleva essere un peso per gli altri.

Tu che eri nato per creare bellezza, per incarnarla, che ci facevi in una vita brutta? Ti abbiamo amato, ammirato, anche invidiato. E adesso sei lì, nel cielo dei poeti, tra gli altri fratelli livornesi dal talento maledetto e a noi resta solo il rimorso dei mediocri, per quel che non abbiamo detto, che non abbiamo fatto.

4 Maggio 2024

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