Il ricordo
La città bene di tutti, non scordiamo Di Liegro
Forse questo è il lascito, l’eredità di quel convegno. Unico e forse irripetibile, in un tempo in cui l’orizzonte del bene comune sta evaporando dalle nostre progettualità personali.
Editoriali - di Emanuela Droghei
Il prossimo 12 Febbraio cadrà il cinquantesimo anniversario dall’evento conosciuto come “il convegno sui mali di Roma”. Fu promosso dal Vicariato di Roma nella persona dell’allora Cardinale Vicario Ugo Poletti, con il contributo decisivo di Mons. Luigi Di Liegro, Direttore dell’Ufficio Pastorale.
Rappresentò un momento senza precedenti di ascolto e di partecipazione della città, coinvolta in quattro giorni di assemblee pubbliche che si tennero fra la Basilica di S. Giovanni – gremita di oltre cinquemila persone – e alcune sale circostanti.
Due furono essenzialmente le ragioni che portarono a quella iniziativa. Da una parte la condizione di degrado in cui versava la città, che fu descritta senza sconti nella relazione di apertura del convegno affidata al sociologo Giuseppe De Rita.
La sostanza era rintracciabile nelle periferie travolte da una crescita fuori controllo, determinata anche dai forti interessi dei poteri economici che tenevano le mani sulla città. Nella diffusione dei baraccati, che raccoglievano migliaia di cittadini privi dei più elementari diritti, dall’igiene all’istruzione.
Nelle carenze dei servizi ospedalieri, nei vuoti nell’edilizia popolare, nella mancanza di un numero adeguato di scuole (impressionanti i dati sull’analfabetismo, largamente presente – nei ragazzi delle aree più povere della città), il deficit nel trasporto pubblico locale.
Alla base, soprattutto, vi era la percezione di una città sfibrata, logorata nella sua stessa dimensione comunitaria, provata da una logica solo individuale e privatistica della cittadinanza, determinata – come ebbe a dire lo stesso Poletti – da un’economia di solo mercato.
Di Liegro parlerà di una visione della città non più come valore, come spazio di umanizzazione, ma come bene di consumo, dove ognuno si sente autorizzato a prendere ciò che gli è utile senza avvertire la responsabilità di fare parte, di essere parte, di essere al servizio.
Questa diagnosi, che non aggiungeva nulla a quanto era sotto gli occhi di tutti, ma che risultava sorprendente soprattutto perché proveniente dal cuore stesso dell’istituzione ecclesiastica romana, infastidì gli ambienti del governo capitolino e di quella Democrazia Cristiana che da quasi trent’anni amministrava la città, senza interruzioni. E che non mancò di farsi sentire.
Erano anche i tempi del referendum sul divorzio (la difesa del voto dei cattolici secondo libertà di coscienza costerà all’abate di San Paolo Giovanni Franzoni – fra i protagonisti anche del Convegno – la sospensione a divinis proprio nell’Aprile del ‘74).
Di lì a poco si sarebbero tenute le elezioni amministrative che portarono di fatto all’elezione del primo sindaco comunista di Roma nella persona di Argan.
La seconda ragione che determinò l’avvio del processo che portò all’apertura del Convegno (ricordiamo che la decisione di dar vita a quella assemblea era avvenuta due anni prima; e che per l’arco di quei due anni fu condotto un lavoro straordinario di ascolto e di analisi della città attraverso il lavoro di cinque commissioni territoriali, coordinate da una commissione centrale di cui Di Liegro era segretario e animatore) risiedeva nel percorso che la Chiesa di Roma stava compiendo per diventare a tutti gli effetti non più solo un prolungamento della Santa Sede nella sua dimensione istituzionale, bensì una chiesa locale, calata dentro la storia e i processi che la attraversavano, secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II che si era tenuto proprio a Roma solo pochi anni prima.
Cito ancora Di Liegro il quale sosteneva che la Chiesa non è senza la città. La Chiesa è nella città, al suo servizio, perché sia uno spazio di liberazione e di realizzazione, non di alienazione. Don Luigi credeva nella città perché credeva che l’uomo è essenzialmente relazione, incontro, dialogo, solidarietà.
E la città rappresentava per lui la grande occasione in cui queste dimensioni costitutive della vita umana possono e devono essere allenate, esercitate. Contro ogni tentazione individualista, spesso incoraggiata da un’economia di solo mercato, in cui il valore della vita è misurato da quanto siamo in grado di consumare. Non importa come o a dispetto di chi.
Cinque anni più tardi don Luigi diede vita alla Caritas Diocesana di Roma in cui io stessa ho avuto la fortuna di crescere. Non la pensò come l’ennesima “pezza” messa sopra il vestito di una città lacerata.
La pensò e la volle come palestra di cittadinanza. In cui centinaia di volontari e di giovani provenienti in parte anche dal servizio civile avrebbero dovuto esercitare il diritto e il dovere della cittadinanza nel contatto diretto con gli ultimi. Perché la città o è di tutti e per tutti – e fatta con il contributo di tutti – o non è.
Forse questo è il lascito, l’eredità di quel convegno. Unico e forse irripetibile, in un tempo in cui l’orizzonte del bene comune sta evaporando dalle nostre progettualità personali. Un tempo in cui si va smarrendo persino la capacità di alzare la voce, di sporcarci le mani, di calarci dentro i vissuti della gente. Di condividere profondamente.
Non nel senso della beneficienza una tantum, quella che serve per sistemare la coscienza, ma di quell’avvertire come nostre le questioni che riguardano gli altri, anche quando non ci toccano in prima persona.
Quel progetto di comunità che trova nel titolo originario del convegno due termini chiave, sui quali varrebbe la pena ritornare a riflettere: giustizia e responsabilità.
*Consigliera regionale Pd – Lazio