L'addio a 100 anni

Chi era Henry Kissinger, tanto realismo e zero etica

Kissinger unisce alle letture dalla spiccata sensibilità europea, la capacità di decifrare la contingenza che è propria del politico pratico. Mettendo insieme le due dimensioni pilotò una estrema concentrazione dei poteri alla Casa Bianca.

Editoriali - di Michele Prospero

1 Dicembre 2023 alle 15:00

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Henry Kissinger
Henry Kissinger

Una delle sue ultime uscite è stato un contributo in un libro sull’intelligenza artificiale. La curiosità per le cose nuove, insieme alla frequentazione delle “historie”, ha sempre contraddistinto Henry Kissinger. Qualcosa di “artificiale”, nel senso del Leviatano di Hobbes, deve avere anche la sua intelligenza politica addestrata alla comprensione degli ingranaggi minuti del potere-macchina.

Il centenario osservatore geometrico delle relazioni internazionali si è distinto per considerazioni di rara saggezza su come sbrigliare “l’enigma russo”. Nella tradizione americana tocca agli “idealisti” (e ai neocon), che sognano la pace perpetua in un mondo dove però devono abitare solo dei liberi stati repubblicani, chiamare alle armi per la guerra santa in nome dei diritti e della democrazia.

Kissinger appartiene alla scuola realista (“un realista eccentrico” secondo M. Del Pero), e senza essere un pacifista non crede ai vantaggi strategici della esportazione con le bombe dei principi dell’occidente. Appartiene alla scuola di Machiavelli che, con le Legazioni scritte come diplomatico in giro per l’Europa, costruì le sue categorie politiche.

Kissinger unisce alle letture dalla spiccata sensibilità europea (uno dei suoi primi lavori è dedicato a figure così distanti come Spengler e Kant), la capacità di decifrare la contingenza che è propria del politico pratico. Mettendo insieme le due dimensioni, nel contesto del bipolarismo del dopoguerra, egli pilotò (non senza qualche inciampo nella crisi costituzionale del Watergate) una estrema concentrazione dei poteri alla Casa Bianca.

Sulle basi di una combinazione dell’analisi con le decisioni, ha posto al centro della condotta americana la nozione di “interesse vitale”, disprezzata da Clinton in preda alle fascinazioni per le nuove missioni etiche. L’insistenza di Kissinger per il senso della misura nella gestione del post-guerra fredda, gli valse l’accusa di essere un nostalgico dell’isolazionismo americano. Si trattava invece della consapevolezza della mancanza di serie alternative al ridimensionamento strategico americano per evitare la proliferazione di nuovi micro-conflitti con un forte potenziale di escalation.

Kissinger coltivava una diversa interpretazione dei fenomeni geopolitici rispetto alla fascinazione del neo-conservatorismo, che in politica estera suggeriva una filosofia dei valori morali che, sulla base dello schema bene-male, rivendicava una conflittualità permanente tra le potenze liberali e gli imperi del male. Egli diffidava della intonazione morale che accompagnava la teorizzazione della liceità del cambio di regime per la esportazione ovunque della forma della democrazia.

Quando nel secolo scorso è toccato a lui dirigere le operazioni non ha esitato peraltro a suggerire certe maniere spicciole per risolvere le questioni interne a Stati caduti sotto il comando dei “rossi”. Quando l’ambasciatore americano Popper osò richiamare Pinochet al rispetto almeno minimale dei diritti umani, in qualità di responsabile dell’American foreign policy lo fulminò: “smetta di fare lezioni di scienze politiche!”. Contava solo l’interesse geopolitico di controllare la politica estera di Santiago, il resto apparteneva alla metafisica.

Su queste stesse basi, che sconsigliano almeno di bollare come “macellai” i capi di Stato nemici, Kissinger evitò con accuratezza i giudizi etici sui regimi russo e cinese per intavolare politiche di reciproca convivenza. Cosa rara per i consiglieri del Principe, Kissinger si impose come personaggio al centro dell’agenda dei media. Divenne anche un personaggio la cui storia attirava la curiosità dei lettori dei rotocalchi popolari. Nessun altro Consigliere per la Sicurezza Nazionale o Segretario di Stato ha ricevuto le attenzioni e la copertura ottenuta dall’ascoltato collaboratore di Nixon e Ford.

C’è da dire che questa eminenza grigia, proveniente dall’accademia, prima di diventare come “Doctor of Diplomacy” l’architetto della distensione nelle relazioni internazionali, “corteggiò la stampa e incoraggiò l’attenzione che da essa ricevette come nessun altro gestore della politica estera aveva fatto prima di lui” (Robert D. Schulzinger, Henry Kissinger, Columbia University Press, 2019, p XI).

Gli otto anni della sua gestione (dal 1969 al 1976) scongelarono la guerra fredda, gestirono il disimpegno dell’Impero dal Vietnam, iniziarono relazioni positive con Pechino, dirottarono le attenzioni strategiche verso il Medio Oriente fallendo però nel proposito di favorire la pace tra arabi ed israeliani.

Nella sua azione innovatrice Kissinger ha monopolizzato influenza, ha assunto decisioni nel cuore dell’amministrazione. “Era dai tempi di Woodrow Wilson (presidente dal 1913 al 1921 ndr), che redigeva dispacci diplomatici con la sua malconcia macchina da scrivere Underwood, che la politica estera degli Stati Uniti non appariva così centralizzata come lo era negli anni di Kissinger” (Schulzinger, ivi, p. 237).

Nessun’altro membro dell’establishment dopo di lui ha raggiunto una padronanza così marcata nel muoversi con autorevolezza nei meandri della geopolitica e nel fondare una coerente linea di politica estera. Dopo Kissinger, ci fu il diluvio con imbarazzanti rivelazioni sulla vendita segreta di armi all’Iran e prove sul riciclaggio dei profitti delle milizie centroamericane.

Le ambizioni reaganiane di oltrepassare la distensione, per favorire la rinascita della competizione militare, produsse dimissioni a raffica e quindi momenti di caos: “in otto anni, Reagan si rivolse a sei diversi consiglieri per la sicurezza nazionale” (ivi).  La solida figura di Kissinger entrò presto nel solco della leggenda.

I risultati della sua stagione, se si prescinde dal più durevole rapporto intavolato con la Cina, si rivelarono non tanto effimeri quanto di breve durata. La distensione con la Russia e lo sforzo per il controllo degli armamenti fu sepolta con le guerre stellari. La dottrina strategica che postulava la necessità di separare “gli interessi permanenti” dell’America da quelli più occasionali, non sempre ha ottenuto sbocchi soddisfacenti ma essa rimane un pilastro per la gestione dinamica delle relazioni internazionali.

La sua lezione fu anzitutto di metodo, e quindi capace di resistere nel tempo: realistica valutazione delle forze e primato assegnato alla soluzione politico-diplomatica capace di adattarsi alle nuove situazioni. Al governo usò gli strumenti della personalizzazione e della “diplomazia spettacolo” con un indebolimento della burocrazia permanente del Dipartimento di Stato. Per questo non lasciò una struttura di gestione che durasse oltre il suo mandato ricoperto di reputazione.

“La diplomazia di Kissinger era personale. Divenne una celebrità durante la sua permanenza al potere e mantenne tale status per anni dopo aver lasciato l’incarico. Tuttavia lo stile personale di Kissinger causò anche molti problemi. Egli a volte agiva come se solo lui possedesse la saggezza, la conoscenza, l’accesso al presidente, il riconoscimento degli altri leader e la necessaria concezione strategica per progettare una nuova politica estera” (Schulzinger, ivi).

Tante sono le accuse che, nel bilancio storico-politico, gli piovono addosso: indifferenza etica e sordità per i diritti umani, estraneità alle questioni dell’economia e dello sviluppo del terzo mondo, ossessiva ricerca della distensione secondo gli schemi vetero-europei del diciannovesimo secolo, utilizzo degli arnesi sottili della diplomazia segreta con le arti della dissimulazione rispolverate nella competizione entro l’élite, dura gestione personalistica del potere a discapito delle competenze degli alti funzionari dell’amministrazione.

Da lettore di Tucidide negli ultimi anni ha cercato in ogni modo di indicare la via per schivare l’appuntamento con la classica previsione di una “trappola” in cui si cade per lo scontro inevitabile tra la grande potenza che declina e la nuova fortezza in ascesa. Nelle sue pagine sulla singolarità della Cina (per risolvere la questione di Taiwan “la forza non è stata esclusa, ma il ricorso a essa è stato, sia pur gradualmente, contenuto”), sulla eventualità che i paesi emergenti traccino i confini di “un ordine asiatico”,

Kissinger invita alla complessità dell’analisi. Anche per tenere salda la consapevolezza degli interessi permanenti americani, nella gestione dei nuovi conflitti egli insiste per la ricerca del negoziato alla luce della certezza che un dialogo è comunque produttivo, al di là delle acquisizioni effettive.

Un certo pessimismo affiora nel suo giudizio sulla gestione dell’ordine post-sovietico secondo una “esultanza ideologica” che in fretta voleva licenziare la “vecchia” diplomazia. “La proiezione di un’alleanza militare come la Nato in un territorio storicamente contestato, nel raggio di qualche centinaio di chilometri da Mosca, non veniva proposta principalmente per ragioni di sicurezza ma come metodo razionale per mettere al sicuro le conquiste democratiche” (Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori, 2015).

Del “Doctor of Diplomacy” resta acuta la percezione che nello scacchiere mondiale sono proliferate nuove potenze, molteplici entità regionali rivendicano voce nel ripensamento dell’ordine. Disegnare un nuovo equilibrio (“Quando il potere sovietico declinò, il mondo divenne in una certa misura multipolare”) è per lui non una indicazione etica ma una necessità. Tra la visione americana (l’ordine globale è creato in direzione della democrazia e dei diritti) e quella cinese (la sovranità prevale sui diritti) l’opposizione è stridente.

“Nessun compromesso formale è possibile tra questi punti di vista; impedire che il disaccordo si avviti fino a degenerare in conflitto è uno dei principali doveri dei leader di entrambe le parti”. Compito delle due leadership è secondo Kissinger cercare che il conflitto non porti ad esiti distruttivi e in tal senso comune è l’interesse a progettare momenti di condivisione della governance mondiale.

Anche la Casa Bianca deve aderire a un disegno multipolare, oltre ogni nostalgia di impero. Per non cedere tutto, è più conveniente per una grande potenza in declino archiviare ogni “missione civilizzatrice” per indossare un soft power disponibile “alla edificazione di un ordine mondiale costruttivo”, come lo definisce Kissinger.

Un suo libretto uscito per Mondadori (“Leadership. Sei lezioni di strategia globale”), ricostruisce la parabola di statisti che vanno da Adenauer sino alla Tatcher. Dovrebbe essere preso come un testo chiave per riflettere sulla qualità delle classi politiche di oggi. La sensazione di Kissinger è che “la maggior parte dei leader non ha grandi visioni, bensì un atteggiamento manageriale”.

Questo deficit di progetto rischia di essere fatale nei periodi di crisi. In un’America stordita tra le suggestioni di un bellicoso internazionalismo liberale e le eredità guerriere dell’amministrazione Bush incantata dal pensiero neoconservatore, l’intelligenza “artificiale” di Kissinger risuona estranea.

 

1 Dicembre 2023

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