La Riduzione del danno
La scienza come antidoto alla (mala)politica proibizionista
L’idea di raccogliere gli scritti sulle droghe di Cohen in un volume ci è venuta naturale, considerando il loro valore. Avevamo però la preoccupazione che potessero apparire legati a un confronto politico superato. La riserva è caduta guardando al contesto italiano e alla novità dell’ascesa al governo della destra nel 2022
Cultura - di Franco Corleone, Grazia Zuffa
Pubblichiamo la prefazione al nuovo volume “Dalla parte della ragione” (ed. Menabò, 2023), che raccoglie scritti del sociologo Peter Cohen, tra i più importanti studiosi a livello internazionale nel campo delle droghe.
La collaborazione di Peter Cohen con Fuoriluogo si è estesa per tutto l’arco dell’attività del mensile, circa un ventennio fino al 2010. Fuoriluogo, inserto mensile del quotidiano Il Manifesto, è stato un punto di riferimento per il movimento riformatore fino dai primi anni novanta, sia per l’apertura alle esperienze europee, sia perché seppe cogliere la novità che la riduzione del danno avrebbe introdotto anche nel dibattito italiano.
I due aspetti si intrecciavano strettamente, poiché la spinta alla Riduzione del danno veniva dalla Svizzera, dalla Gran Bretagna, dalla Germania delle città coalizzate per contrastare le politiche tough on drugs di matrice statunitense. Ma soprattutto dall’Olanda, paese pioniere della riduzione del danno: che fino dagli anni sessanta, su ispirazione di commissioni di esperti dirette da illustri criminologi e forte di un sistema ben sviluppato di welfare, aveva istituito un sistema di “tolleranza” – di “diritto penale minimo”, si potrebbe dire- per le droghe.
Da qui la scelta editoriale di aprire il confronto con esperti e studiosi di altri paesi, col supporto di Forum Droghe che organizzava convegni e seminari cui parteciparono molti protagonisti del dibattito internazionale, da Ethan Nadelmann, a Rodney Skager, a Pat O’Hare, a Axel Klein, a Matteo Ferrari, per citarne alcuni. E naturalmente c’era Peter Cohen, già legato da amicizia da Giancarlo Arnao, il maggiore studioso antiproibizionista in Italia, uno degli animatori di Fuoriluogo. Fu proprio Giancarlo Arnao a introdurlo nel circolo del giornale.
Il rapporto di Peter Cohen con Fuoriluogo – il più intenso fra tutti- con il tempo si è arricchito di una lunga amicizia che dura ancora. Il contributo scientifico di Peter è stato grande, ne parleremo fra poco. Ma vi è qualcosa di più. Peter Cohen ama l’Italia e si è appassionato alla vicenda politica italiana e al movimento per la riforma della politica delle droghe che per più di venti anni ha impegnato giuristi, operatori e giovani dei centri sociali alternativi.
Ha partecipato alla costruzione di una rete capillare di movimento in tante città, da Venezia a Torino, da Udine a Genova, da Ferrara a Mantova, da Firenze a Cassino, da Catania a Roma: tanti legami si sono stretti anche a tavola, nella trattoria di don Gallo e in tanti altri locali apprezzando le cucine regionali e i buoni vini.
Peter Cohen ha sempre privilegiato le pratiche politiche “dal basso”, emblematico è il suo contributo alla vicenda del festival reggae Rototom, che si svolgeva in Friuli, a Osoppo. In quello spazio libero si tenevano discussioni serrate e Peter partecipò in diverse occasioni: memorabile il confronto con il farmacologo Gian Luigi Gessa su uno dei temi centrali dell’elaborazione di Cohen, la teoria neuroscientifica della “dipendenza” da lui magistralmente confutata (vedi il saggio dal titolo L’imperatrice nuda).
In seguito il festival Sunsplash Rototom fu chiuso e il suo fondatore fu accusato niente meno che di “facilitazione del consumo” sulla base della legge antidroga. Fuoriluogo fu in prima linea nella mobilitazione per far cadere il castello di accuse e alla fine il processo si concluse con l’assoluzione: Cohen partecipò alla battaglia e ai festeggiamenti per la vittoria. Dedicò alla vicenda anche un saggio (dal significativo titolo “La politica della droga come fuga dalla razionalità”).
L’idea di raccogliere gli scritti di Peter Cohen in un volume ci è venuta quasi naturale, considerando il loro valore. Avevamo però la preoccupazione che potessero apparire legati a un confronto politico superato, dopo la svolta di legalizzazione della cannabis verificatasi prima in Uruguay, poi in Canada e soprattutto negli Stati Uniti.
E considerando che questi radicali cambiamenti sono avvenuti relegando le Convenzioni Onu sullo sfondo come mummie inaridite: a riprova peraltro dell’acume politico di Cohen, che molti anni prima aveva scritto invitando i riformatori a non impegnare le loro forze nella battaglia per cambiare le Convenzioni, i “testi sacri della Chiesa della proibizione”; e a scegliere l’obiettivo più realistico e conveniente di lasciare che i trattati internazionali deperiscano nel tempo, come sembra stia accadendo.
La riserva è però caduta guardando al contesto italiano e alla novità dell’ascesa al governo della destra nel 2022. La premier Giorgia Meloni, che da sempre si è battuta per il “pugno duro sulla droga”, ha dato l’avvio a una aggressiva campagna neo proibizionista, affidata al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, lo stesso che venti anni fa fu l’ispiratore del giro di vite della legge Fini-Giovanardi.
Rientra oggi in circolazione la stessa paccottiglia di parole d’ordine reazionarie, fondata sugli stessi “miti”: la “droga è droga”, senza distinzione, perché la droga è il Male con la m maiuscola. Va perciò combattuta senza cedimenti alla riduzione del danno. Nel mirino è soprattutto la cannabis, stepping stone (o droga di passaggio) alle sostanze pesanti: il “mito” per eccellenza per sbarrare la strada alla legalizzazione. Quanto ai consumatori “tossicodipendenti”, devono essere rinchiusi nelle comunità sul modello di San Patrignano: per “salvarsi” dalla droga, nell’anima e nel corpo.
Gli scritti di Cohen sono perciò un patrimonio prezioso in questo frangente politico, è ovvio. Ma gli faremmo un torto se volessimo rinchiudere la valenza politica del suo lavoro nel recinto della contingenza attuale. C’è un filo rosso nel suo pensiero, valido oggi come domani, perché indica il rapporto rigoroso che deve intercorrere fra scienza e politica; fra teoria e ricerca per validare gli assunti teorici da una parte, e le scelte politiche conseguenti, dall’altra.
Lo stesso filo di tessitura della sua identità e impegno personale. Peter è un politico e un attivista in quanto studioso che mette a disposizione della politica il suo sapere. Ed è uno studioso in quanto animato dalla passione politica, in primo luogo di ricondurre l’uso di droghe alla dimensione umana, di interpretarlo in una cornice larga, facendo ricorso alla storia e alla filosofia (prima ancora della sociologia).
Si legga l’illuminante scritto “La religione laica dell’individuo indipendente” che spiega la profonda paura della “dipendenza” quale minaccia agli ideali della cultura occidentale. E si prenda nota del suo invito (nel più recente testo “L’emancipazione della dipendenza”) a considerare la dipendenza come una delle caratteristiche fondamentali dell’esistenza umana, quella di “creare legami” con vari oggetti di attaccamento (luoghi, persone, animali, abitudini etc.). Da questa visuale più larga, la dipendenza può fare meno paura e chi usa droghe non apparirà più come “l’altro”.
Tornando al rapporto fra scienza e politica. La scienza serve in primo luogo a mettere in luce il carattere non-scientifico delle attuali politiche proibizioniste, fondate sull’idea dell’uso di droga come male e danno (non controllabile se non con il ricorso alla proibizione). Ma – scrive l’autore- “il concetto di uso è una categoria morale, non una categoria empirica”.
Se si vuole trattare l’uso di droghe come fenomeno empirico, allora bisogna indagare i modelli di consumo e la loro evoluzione nel tempo. Scoprendo così che un assunto di base della filosofia proibizionista, la “escalation” del consumo fino alla dipendenza, non è validato scientificamente: parlano in tal senso le ricerche epidemiologiche, così come le ricerche qualitative che indagano in profondità i modelli di consumo e la loro evoluzione nel tempo.
In aperta opposizione all’ipotesi di escalation, si evidenzia “che nella maggior parte dei casi il consumo nei setting naturali è soggetto a un notevole “controllo”. Ne consegue la possibilità/necessità di un “cambio di paradigma”: dal paradigma farmacologico – centrato sulla (schiavitù della) addiction-, al paradigma psicosociale – centrato sui “controlli” (le regole sociali all’uso) e sulle capacità di autoregolazione delle persone che usano droghe. Dall’obiettivo di “eliminazione del consumo”- perseguito dalla politiche di proibizione-, alla “regolazione” del consumo, tramite politiche di sostegno ai controlli sociali, alternative alla proibizione”. Per Cohen, che elabora questi concetti già negli anni novanta, quando la riduzione del danno diventa la nuova bandiera del movimento riformatore, questo approccio rappresenta il “nuovo cardine” del cambio di paradigma.
Sta qui, nell’offerta di un solido fondamento teorico alla riduzione del danno, il contributo più interessante del Cohen scienziato e politico. E sta qui la sua attualità. La riduzione del danno, sotto forma di offerta di servizi e trattamenti alternativi al drug free, si è largamente affermata in pressoché tutto il mondo, è vero. E tuttavia non si è (ancora) affermata come alternativa, paradigmatica e politica, al proibizionismo. Forse perché neppure tutto il variegato movimento di riforma l’ha saputa riconoscere, accettare, sostenere come tale. Le diverse anime della riduzione del danno si sono manifestate fino dall’inizio, Cohen chiarisce questa dialettica di posizioni.
Per alcuni, la “riduzione (fino all’eliminazione) del consumo e la riduzione del danno non sono obiettivi alternativi: la riduzione del consumo sarebbe infatti parte integrante della riduzione del danno”. In parole più politiche, la riduzione del danno sarebbe una strategia di “convivenza” con la proibizione.
Ma c’è un’altra visione, teoricamente più rigorosa (e di orizzonte politico più avanzato): l’obiettivo di soppressione del consumo, perseguito dalla legge penale, confligge con la regolazione sociale del consumo, perseguita dalla riduzione del danno. Poiché il controllo penale minaccia fino a distruggere i controlli sociali e nega le capacità di autoregolazione delle persone che usano droghe, in nome della stessa mission della proibizione, di eliminazione del consumo.
Questi strumenti concettuali permettono di ragionare criticamente sull’attuale collocazione della riduzione del danno nel dibattito europeo, all’interno della politica dei “quattro pilastri”. Questa politica – comunemente definita di equilibrio fra azioni convergenti: prevenzione, trattamento, riduzione del danno, applicazione della legge penale) può essere un esempio di strategia di “convivenza” con la proibizione. Con tutti i suoi limiti, primo fra tutti il fatto che la centralità del pilastro penale non è stata sostanzialmente intaccata, come dimostrano le cifre dell’incarcerazione per i reati delle legislazioni antidroga.
Ma può essere anche vista come una tappa del movimento di riforma “dal basso”, che scommette sulla forza delle pratiche (di riduzione del danno, appunto), per modificare l’immagine sociale delle droghe e incidere sulle politiche pubbliche. Per un movimento in marcia verso il “cambio di paradigma”, questo volume può essere un alleato prezioso.