Democrazia da rivalutare
Come funziona il finanziamento pubblico ai partiti e perché va rivisto, tutte le distorsioni del sistema
Gridava no ai quattrini pubblici, ma il M5s ha incassato finora 1,4 milioni dal 2xmille. Seconda questione: dai dati emerge - vedi il caso di Italia viva - che le donazioni dei privati favoriscono i partiti votati dai ceti più abbienti. In barba alla Costituzione
Editoriali - di Salvatore Curreri
Seppur provvisori – visto che le dichiarazioni Irpef si potranno presentare fino a novembre – i dati pubblicati nei giorni scorsi sul “2 per mille” destinato quest’anno dai contribuenti ai partiti politici si prestano già a qualche considerazione. Ciò tanto più perché la commissione Affari costituzionali del Senato ha iniziato da tempo l’esame di due disegni di legge che seppur presentati da sponde politiche opposte (nn. 207 Giorgis ed altri (PD) e 549 De Priamo e altri (Fratelli d’Italia) perseguono il medesimo obiettivo di aumentare il finanziamento pubblico dei partiti rafforzandone di contro la democrazia interna.
La prima novità che salta subito all’occhio è l’ingresso in classifica del M5s, cui 139mila contribuenti hanno destinato complessivamente 1,4 milioni di euro. Non che prima esso non potesse contare su risorse pubbliche. Per quanto ai più ignoto, il M5s (meglio i suoi due gruppi parlamentari) riceve ogni anno contributi da destinare all’attività politico-parlamentare in base alla loro consistenza numerica. Così, ad esempio, grazie ai numerosi parlamentari eletti nel 2018 – poi com’è noto ridottisi nel corso della XVIII legislatura (alla Camera da 222 deputati a 96; al Senato da 111 senatori a 62) – i gruppi del M5s nel 2021 hanno incassato 7,137 milioni di euro alla Camera e 4,838 milioni di euro al Senato. In totale 12 milioni di euro: non poco.
Eppure il M5s finora aveva sempre sdegnosamente rifiutato il finanziamento pubblico (2 per mille e donazioni fiscalmente agevolate), in nome della sua pretesa e presunta “diversità” e “onestà” (tà-tà) rispetto agli altri partiti. O forse anche perché se avesse voluto accedere a tali forme di finanziamento avrebbe dovuto adottare uno Statuto maggiormente rispettoso dei requisiti di trasparenza e democraticità stabiliti per legge (art. 3.2 d.l. 149/2013); il che non sempre nei fatti è accaduto, come diverse sentenze di condanna in tema di democrazia interna dimostrano. Dall’anno scorso, invece, il M5s ha deciso di infrangere questo (come altri) tabù, accedendo al finanziamento pubblico indiretto.
La seconda considerazione riguarda proprio l’ammontare del 2 per mille destinato al M5s: 1,4 milioni di euro da parte di circa 139mila contribuenti, con un media a contribuente di circa 10 euro, la più bassa tra i principali partiti. Il che significa che il M5s riceve contributi soprattutto dai contribuenti con redditi bassi, all’opposto di Italia viva che ha ricevuto circa 707 mila euro da pressappoco 43mila contribuenti (media 16,44). Ciò dimostra che l’attuale sistema di finanziamento pubblico indiretto, basato oltreché sul 2 per mille anche sulle donazioni fiscalmente deducibili (con il tetto massimo di 100mila euro), finisce per premiare i partiti che possono contare su elettori più abbienti.
E questo non va bene perché se i costi della politica – perché, al di là delle facili demagogie, fare politica “costa” – sono addossati solo ai privati, vi è il serio rischio che essa sia gestita, indebitamente condizionata o, almeno, orientata da oligarchie economico-finanziarie o gruppi d’interesse (lobbies) in grado di sopportarli. Per evitare ciò, lo Stato deve finanziare i partiti, tramite cui i cittadini concorrono alla sua vita democratica, così da rimuovere gli ostacoli di ordine economico che altrimenti impedirebbero loro l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica del paese (art. 3.2 Cost.).
Il finanziamento pubblico risponde allora all’esigenza “di assicurare non solo l’uguale libertà del voto a tutti gli elettori (…) (art. 48 Cost.), ma anche la parità di trattamento di tutti i movimenti e partiti politici che partecipano alle competizioni elettorali (art. 49 Cost.) (…) [con] l’obiettivo di garantire l’uguale esercizio dei diritti politici tutelati dalle indicate disposizioni costituzionali e di evitare irragionevoli discriminazioni nel godimento degli stessi” (Corte cost., sentenza 151/2012). Peraltro tale intervento è reso necessario dal fatto che il numero dei privati che destinano ai partiti risorse finanziarie e il loro ammontare complessivo siano in calo e comunque ampiamente insufficienti. Per un verso, infatti, le donazioni private ai partiti sono drasticamente diminuite (dai 41 milioni del 2013 ai 21 del 2020).
Per altro verso, riguardo al cosiddetto 2 per mille, dei fondi statali messi a disposizione ogni anno (25,1 milioni), i partiti hanno incassato molto meno (15,3 milioni nel 2017, 14,1 del 2018, 18,1 nel 2019, 18,8 nel 2020 e 18,5 nel 2021) anche perché pochi sono i contribuenti che si avvalgono di tale facoltà (1,22 milioni nel 2017, 1,089 nel 2018, 1,358 nel 2019, 1,371 nel 2020, 1,362 nel 2021). Dati che costituiscono l’ennesimo segnale della diffusa sfiducia dei cittadini nei confronti dei partiti, la quale trova ulteriore conferma nella diminuzione dei loro iscritti (dagli iniziali 4 milioni, pari al 9% dell’elettorato, agli attuali 500mila, pari all’1%) e nell’aumento dell’astensionismo elettorale (dall’iniziale 7 all’attuale 40%, con picchi – sempre più frequenti nelle ultime elezioni regionali o locali – di superamento della soglia psicologica della metà degli aventi diritto).
I due progetti di legge si propongono, come accennato, di ridisciplinare la materia. Così, si propone di aumentare di 20 milioni annui (da 25,1 a 45,1) l’ammontare complessivo delle risorse disponibili per il “due per mille” e, soprattutto, di non restituire più allo Stato le risorse non utilizzate per mancata scelta dei contribuenti (cosiddetto inoptato) ma di suddividerle in proporzione ai voti di lista. Di contro, i partiti dovrebbero rispettare requisiti più stringenti di democrazia interna, soprattutto circa le procedure di selezione delle candidature nei collegi uninominali e nelle liste, com’è noto bloccate.
Per quanto l’intento sia lodevole, non sfuggono alcune criticità: 1) la democrazia nei partiti viene richiesta come requisito per accedere al finanziamento pubblico anziché al procedimento elettorale per cui ad un partito non democratico al suo interno (al limite padronale), viene paradossalmente impedito l’accesso alle risorse pubbliche (il meno) e consentita invece la partecipazione alle elezioni (il più); 2) si presuppone che nei partiti esista una dialettica interna che è più propria dei vecchi partiti di massa che degli attuali partiti per lo più basati sulla leadership di un capo che risponde del proprio operato non agli iscritti ma agli elettori. Non a caso i congressi dei partiti, anche quando previsti per statuto, non si celebrano più oppure diventano mere kermesse pre-elettorali; insomma, è forte la sensazione che si voglia ora chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati; 3) se i partiti vogliono davvero recuperare credibilità nei confronti degli elettori, anziché ricorrere a soluzioni di ripiego, dovrebbero avere il coraggio di invertire la narrazione populista anti-casta, al cui successo essi hanno certamente contribuito con i loro comportamenti, assumendosi la responsabilità politica di fare un discorso chiaro di verità nei confronti dei cittadini circa la necessità di avere le risorse necessarie per fare attività politica, impegnandosi di contro ad essere veramente democratici all’interno, a cominciare dal tema ineludibile delle modalità di selezione delle candidature elettorali, superando l’attuale voto bloccato.