La rivoluzione si chiama pace, la nonviolenza abbatte i muri
La guerra è la sconfi tta della politica e dell’umanità. Si dice che serve realismo. Ma Havel diceva che “la politica non può essere solo l’arte del possibile. Deve essere anzi l’arte dell’impossibile”
Editoriali - di Andrea Riccardi
Pubblichiamo qui di seguito il discorso che Andrea Riccardi, fondatore della Comunità Sant’Egidio, ha pronunciato in apertura dell’incontro internazionale “L’audacia della pace” che si è tenuto a Berlino dal 10 al 12 settembre.
È significativo – per donne e uomini di religioni differenti, pensosi sulla pace- trovarsi a Berlino. In questa città, la storia non tace. Parla di grandi dolori, quelli del conflitto mondiale, del totalitarismo, della Shoah, della guerra fredda. Gli stessi deportati sapevano quanto fosse decisivo ricordare la guerra. Abram Cytryn, ebreo nel terribile ghetto di Lodz, morto a Auschwitz, animo di poeta, spiega perché cominciò a scrivere la storia di quel recinto di dolore: “Vivendo nell’inferno del ghetto -dice- e vedendo colare il sangue dei miei fratelli, ho deciso di fissare sulla carta la mia testimonianza… Vorrei che il sangue schizzasse sulla carta per trasmettere alle generazioni future la memoria di questi anni impietosi”.
Il sangue schizzato da quegli anni impietosi, la voce dei testimoni, hanno consolidato la cultura della pace, fondata sull’orrore della guerra e la coscienza di quanto male gli uomini possono fare in guerra. Questa cultura della pace è divenuta, specie in Europa orientale, anche una forza pacifica che ha colpito la violenza del potere. Il passare del tempo, la scomparsa della generazione della guerra e dei testimoni della Shoah hanno indotto alla dimenticanza dell’orrore per la guerra. Fino alla sua riabilitazione come strumento per risolvere i conflitti o affermare i propri interessi. La guerra è la negazione del destino comune dei popoli. È la sconfitta della politica e dell’umanità. Resuscita incubi e inferni della storia, oggi peggiori per la potenza di armi e tecnologie, ignote nel passato.
Berlino però dice molto anche in altro senso. Rinnovata capitale della Repubblica Federale, parla forte delle grandi conquiste della libertà: la riunificazione della Germania, la fine della divisione del mondo in blocchi, la solidarietà e il valore della democrazia, l’accoglienza a persone di altra origine. Qui l’eredità della guerra è durata quasi mezzo secolo oltre il ‘45, così difficile per questa città. È stata cancellata -lo sottolineo- non con un’altra guerra, ma con un movimento, che è stato pressione pacifica della gente (che ha sacrificato se stessa), diplomazia, dialogo, audacia. L’audacia dell’89!
In un certo senso, il 1989 in Europa ha ribaltato il paradigma del 1789, per cui una rivoluzione vera si fa sempre con la violenza. Berlino racconta come si può far cadere il Muro a mani nude e far rinascere una città libera e unita. Dopo l’89, una generazione ha sperato in un mondo più unito, pacifico, democratico. Ma qualcosa non è andato nel senso sperato, forse per il modo provvidenzialistico di credere nel processo di globalizzazione, tanto economico. La globalizzazione dei mercati non si è accompagnata a quella della pace, della democrazia, dello spirito. Tensioni, contrapposizioni, fratture hanno reagito al mondo globale. Non ripercorrerò il trentennio trascorso. Ma l’odierna situazione internazionale è lontana dalle speranze alla caduta del Muro. Segnata com’è, non solo da nuovi muri, ma da aspri conflitti. Da culture del muro e del conflitto.
Sappiamo molto del mondo contemporaneo. Non manchiamo di informazioni, anzi. Ma -come dice il filosofo coreano, Byung-Chul Han, “le informazioni da sole non spiegano il mondo”. Non è facile capire e agire. Bisogna incontrare, anche il dolore. Ci raggiunge il grido di milioni di donne e uomini che soffrono per la guerra, per le crisi da essa innescate, per il disastro ecologico, per l’abbandono cui sono condannati. Queste grida spiegano il lato doloroso del nostro mondo. Non si riesce a liberare l’umanità dalla guerra: in Ucraina, in Africa e in tante altre parti del mondo. Guerre, crisi violente aumentano. In qualche modo, pur credendo di reagire o agire, siamo prigionieri, pur senza dirlo. Per i potenti armamenti e le tecnologie belliche, i conflitti spesso si eternizzano, non trovano via d’uscita, nemmeno con la vittoria di una parte. Durano e intanto consumano i popoli, le vite e il tessuto d’interi paesi. I profughi inondano il mondo, esposti a sofferenze incredibili.
Paesi potenti, responsabili di governo, colossi economici, si trovano impotenti di fronte a questo scenario o soggiogati da una logica che spesso altri hanno messo in movimento, senza pudore di praticare l’aggressione. Le guerre sono come incendi: c’è chi li appicca irresponsabilmente, ma alla fine nessuno li controlla e si sviluppano di forza propria, talvolta bruciando aggressori e aggrediti, ma anche paesi terzi. Sono parole non ispirate a un romanticismo pacifista, ma all’esperienza storica dei conflitti del secolo scorso e di questo, dall’incontro con le ferite dei popoli, dall’accoglienza dei profughi, veri testimoni e ambasciatori del dolore della guerra.
Come donne e uomini di religione, ci muoviamo da anni sul difficile crinale tra la guerra e le speranze di pace. Abbiamo mosso i primi passi ad Assisi, in tempo di guerra fredda, nel 1986, quando Giovanni Paolo II convocò le religioni a pregare per la pace. Il 1 settembre 1989, a cinquant’anni dall’inizio del secondo conflitto mondiale, eravamo a Varsavia, mentre il Muro sembrava ancora tenere, per proclamare insieme come credenti dell’Est e dell’Ovest, del Sud: War never again! Mai più una guerra così! Basta con le conseguenze della guerra mondiale!
Di anno in anno, abbiamo monitorato i conflitti, cercato vie di pace (pure riuscendo a trovarle in alcuni paesi), lavorato per la cultura del dialogo e dell’incontro, coscienti che la pace è al fondo delle grandi tradizioni religiose. Parlando lo scorso anno, ai leader religiosi, riuniti nello spirito di Assisi a Roma, papa Francesco ha detto: “Qui trova ascolto la voce di chi non ha voce; qui si fonda la speranza dei piccoli e dei poveri: in Dio, il cui nome è Pace”. Le religioni non possono non ascoltare la voce dei senza voce e farsi loro voce.
La storia delle religioni non è stata sempre espressiva di questa pace, eppure -in questi anni- grandi figure di spirituali, gente di dialogo, audaci e pazienti mediatori, sapienti, ci hanno accompagnato. Non abbiamo smesso, ogni anno, di darci appuntamento, di città in città, per invocare la pace, pur nella diversità delle tradizioni religiose, per evitare che il sogno di pace sia seppellito. Non lo è, perché è scritto nelle fibre profonde dell’essere umano, nel profondo della fede dei credenti, nei desideri dei disperati. Ringrazio quanti oggi si uniscono a questo incontro di dialogo, di pace, di preghiera. Le nostre visioni non debbono essere coincidenti, come le nostre letture della realtà complessa del nostro tempo: non è quello che conta! Tuttavia c’è un punto decisivo, espresso dal titolo del nostro incontro, “l’audacia della pace”. In questa difficile situazione, non basta più la prudenza, pur necessaria, non più il realismo o la lealtà, pur decisive: occorre l’audacia, che ci porta oltre il muro dell’impossibile di fronte a cui ci siamo arrestati.
Scrive un uomo che si è consumato sulle Scritture, Walter Brueggemann: di fronte alla guerra “ci riesce difficile credere alla possibilità dello schiudersi di una realtà nuova. Il futuro sembra stanco, atroce, replica del passato”. Audacia della pace significa credere che c’è un’alternativa. Che si deve investire di più nel dialogo e nella diplomazia, nell’incontro per soluzioni giuste e pacifiche. Parlare di pace non è intelligenza con l’aggressore o svendita dell’altrui liberà, ma coscienza profonda e realista del male della guerra su i popoli. Audacia della pace, che è perseguire visioni alternative senza rassegnarsi ai binari obbligati della realtà. Audacia della pace, per noi credenti, è invocazione della pace e fiducia in Dio che ha disegni di pace che guidano la storia.
Diceva Václav Havel, un uomo che ha portato il suo paese alla libertà: “la politica non può essere solo l’arte del possibile, ossia della speculazione, del calcolo, dell’intrigo, degli accordi segreti e dei raggiri utilitaristici, ma piuttosto deve essere l’arte dell’impossibile, cioè l’arte di rendere migliori se stessi e il mondo”. Le risorse spirituali, quelle dell’umanesimo, la partecipazione al dolore di tanti per la guerra, generano audacia per una pace vera, giusta, che non può essere più negata a troppi popoli.