Parla l'attore e autore
Andrea Pennacchi, dalla gavetta ai monologhi virali: “Gli italiani hanno bisogno di un padre che li unisca e gli dia botte”
Anni di teatro, cinema e televisione come attore e anche autore, ma la popolarità arriva con i monologhi (molti in veneto), i personaggi inventati per fare satira e diffusi sui social e youtube
Interviste - di Susanna Schimperna
Ragazzino in un quartiere che «era come il Texas, ma tanto più umido, al confine tra la metropoli di Padova e terre sconosciute e selvagge». Il rugby, la banda, essere rispettato dagli altri. Letteratura e storia? Odiate. Poi trasferimento a Forlì per studiare all’Istituto tecnico aeronautico, e al rugby si sostituisce la boxe, con un allenatore che lo insulta per gli sbagli e pure per i brufoli, che sono tanti, mentre il bisogno di essere rispettato trova una risposta più effimera ma forse più semplice al tentativo di diventare un guerriero: sembrare un guerriero. Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger spopolano, il giovane Andrea Pennacchi li imita e dopo due mesi di body building è pronto per fare il bullo.
Peccato che in una sfida da strada il sembrare conti meno dell’essere, il disonore cada su di lui e sui muscoli pompati. Non va meglio come aspirante pilota. Per l’abilitazione gli danno un Cessna 172 e in atterraggio, a causa di una serie di manovre insensate, l’aereo si schianta sulla pista contro un mucchio di materiali, dopo aver rimbalzato come un canguro. Si guadagna, letteralmente sul campo, il soprannome di Kangaroo. Va militare. Ufficiale. Non impara nulla ma gli si incrinano i sogni (diventare un pilota di aeromobili) e le poche certezze (per fare quello che voglio ho bisogno di disciplina). Il suo idolo da sempre è Bruce Lee, e solo ora ne capisce davvero il messaggio profondo: “impara dagli altri, scarta quello che non ti serve e tieni quello ti serve, fatti da te la tua strada”. Si iscrive alla facoltà di Lingue, scopre il teatro, si innamora perdutamente di Shakespeare.
Rappresenta le opere del Bardo dopo averle tradotte in veneto, modificate secondo la triade dell’antica saggezza “tempo-luogo-circostanza”. Anni di teatro, cinema e televisione come attore e anche autore, ma la popolarità arriva con i monologhi, i personaggi inventati per fare satira e diffusi sui social e youtube. In particolare, arriva nel 2018, quando Pennacchi ha quarantanove anni, con un video che si chiama This is racism – Ciao Terroni. Ora ha girato per Netflix la serie Tutto chiede salvezza, regia di Francesco Bruni, ambientata in un ospedale psichiatrico. A settembre inizierà le riprese di Una rosa dell’Istria per la regia di Tiziana Aristarco. A gennaio debutterà a teatro con Arlecchino, scritto da Marco Baliani. È proprio richiestissimo, stimatissimo.
E pensare che la popolarità è arrivata con un video di nemmeno cinque minuti. Come è nato quel monologo, e perché gli attacchi?
Facevo già da un pezzo monologhi, pezzi miei. Un giorno su Facebook mi contatta un giovane regista e mi dice ho un monologo di Marco Giacosa, uno sfogo contro questo cambiamento antropologico dell’Italia che si scopre unita contro gli immigrati, mentre prima la divisione era tra Nord e Sud. Me lo faccio mandare, lo traduco in veneto con Francesco Imperato, poi gli presto Franco Ford, un personaggio dei miei che era venuto fuori traducendo Le allegre comari di Windsor di Shakespeare. Il video, Ciao terroni, che rientra nel progetto This is Racism, che fa capo a Francesco e a un gruppo di ragazzi, una volta in rete arriva presto a 6 milioni di contatti (parliamo del 2018), e subito eccoci dentro un’arena di combattimento virtuale, che nasce da un malinteso: molti avevano preso il monologo per lo sfogo di un razzista, non avevano capito che io fossi un attore. Mi chiama Makkox da Propaganda Live e mi domanda se ho voglia di andare a fare il monologo da loro. Da lì, mi hanno proposto di tornare ogni tanto a fare pezzi miei.
Visibile di colpo grazie ai social, ma prima avevi «macinato chilometri», come hai scritto in uno dei tuoi libri. Mi racconti?
È una cosa che mi ha fatto molto ridere. Perché a un certo punto la gente mi scriveva «Ma dov’eri prima?» e io rispondevo «Al bar». Il fatto è che ero in teatro e non solo, ero in tutti gli spazi in cui si potessero radunare le persone, dalle aule scolastiche alle carceri, dalle aule civiche alle aule magne. Ho cominciato col teatro di ricerca, e ho scoperto che la cosa che il modo migliore per mettere a punto la tecnica era andare nelle scuole. Una bella iniziativa del circuito regionale teatrale qui nel Veneto mi ha permesso di andare in giro a raccontare storie, e ho preso a farlo partendo da Shakespeare, spiegando a chi mi ascoltava che il Bardo era veneto.
La primissima volta che hai portato a teatro Shakespeare…?
La Regione mi propose, in occasione del quadricentenario della morte di Shakespeare, di fare qualcosa per le scuole che avesse a che fare col Veneto. Ho forzato l’idea: e se Will fosse nato in Veneto? Da allora, quasi ogni anno ho girato le scuole con una lezione-spettacolo. Una sfida vinta.
Hai mai pensato che il dialetto veneto fosse un po’ penalizzante in un Paese in cui tra cinema e tv da molto tempo si cerca di far ridere con i dialetti da Roma in giù?
Certo, ci ho pensato. Non sono un “nazionalista veneto”, però ho realizzato che effettivamente c’è una lunghissima storia dell’uso letterario in commedia del veneto, che si interrompe negli anni Sessanta, quando ancora in televisione potevi vedere Macario col suo piemontese, Govi col genovese, le commedie di Goldoni con Cesco Baseggio. Non chiedermi perché, non riesco a capire i motivi della scomparsa della varietà di più lingue comiche, ma così è successo.
Raccontando la tua vita nel libro Shakespeare and me, fai un discorso molto interessante sulla generazione precedente che «sa sempre cosa vada fatto». Lo pensi per tutti quelli una volta arrivati a cinquanta/sessant’anni o soltanto per la generazione dei tuoi genitori?
Lo penso per la generazione prima della mia. Loro magari sbagliavano di grosso, ma ti dicevano «Io so come si fa». C’è stato un lungo periodo di pace e relativo benessere (io figlio di operaio almeno mangiavo regolarmente, cosa che i miei genitori non ricordavano fosse loro accaduta in gioventù), e siamo cresciuti più confusi. Capita periodicamente che ci sia una generazione che non sa cosa fare: quelli che diventano adulti nel periodo shakespeariano erano un po’ così, pieni di dubbi, senza certezze. Amleto adolescente si trova a non riconoscere il vero dal falso, per esempio. Un po’ come la mia generazione.
Torniamo al razzismo, tema che, usato nel famoso monologo per far ridere (e pensare), ti ha dato la popolarità: oggi il razzismo non sarà il risultato di una società chiusa, in cui hai bisogno di appoggi e raccomandazioni anche per svolgere le mansioni più umili e quindi è facile (e comodo) individuare nei migranti i responsabili della mancanza di lavoro? Sono poveri, questo è il problema. A prescindere dalla provenienza geografica e dal colore della pelle.
Guarda, credo che questo sia fuori discussione: razzismo verso chi è povero. Tanto che dove questo problema della mancanza di lavoro non c’è, non esiste razzismo. Un esempio? Da noi in Veneto (e passiamo da razzisti), moltissimi di quelli che lavorano nei capannoni vengono da fuori, dalla Moldavia, dal Nordafrica, e scherzano tutti insieme sul colore della pelle, sulle diverse abitudini. Vai al bar e senti uno che dice questi vengono e ci rubano il lavoro, allora tu gli fai notare che con lui lavora Mohammed, e quello si inalbera: non mi sta’ a tocca’ Mohammed che è una persona straordinaria! Così funziona. Le chiacchiere sono una cosa, in pratica il lavoro – quando c’è – unisce. Il razzismo qui e oggi è paura della povertà. Della povertà che si teme contagiosa.
Parliamo di uno dei tuoi personaggi più riusciti, il maggiore Pirro Graziani Cadorna. Come nasce, e chi è?
Durante la pandemia facevo un personaggio che era il portavoce del generale che gestiva l’emergenza, e lo facevo con la voce dei comunicati Luce, stentorea. Funzionava. Che l’emergenza fosse gestita effettivamente dai militari attirava l’attenzione. Con la fine dei lockdown ho lasciato andare il mio portavoce, ma quando con la guerra hanno cominciato a imperversare gli strateghi e i militari, molti dei quali con idee stranissime e proposte di soluzioni campate in aria (che nei loro discorsi sembravano soluzioni ovvie, praticabili, ma a cui guarda caso avevano pensato solo loro, in giacca e cravatta e a distanza di sicurezza dalla guerra), io e Makkox ci siamo detti che era il caso di far parlare un maggiore, mettendogli in bocca molte delle cose che i grandi strateghi andavano – e vanno – dicendo veramente.
Tu hai un’idea di teatro molto particolare, forse definibile con l’aggettivo “fluido”: il testo che davvero si mette al servizio del pubblico, e quindi cambia a seconda del luogo e degli spettori. Cambia anche rispetto a quel momento specifico, a quello che sta accadendo fuori?
Alt. Mi piacerebbe arrogarmene la paternità, ma non è un’idea mia. Il teatro vero è sempre stato così, sicuramente lo era all’epoca di Shakespeare, Marlow, Jonson, ma penso anche nella Grecia antica. Ci deve essere una forte struttura di base, ma non puoi fare un testo ingessato, che è doppiamente falso: primo, perché nessuno sa come fosse una volta, secondo, se lo fai non stai mostrando il vero Tirannosauro, ma solo le sue ossa, come al museo, e si perde la meraviglia della creatura. La famosa “assoluta fedeltà al testo” è un’operazione fasulla. La filologia ha scoperto, riguardo a Shakespeare, che ci sono testi alternativi, tagli che venivano fatti a seconda che la rappresentazione fosse davanti alla regina o agli spettatori del Globe, e poi magari arrivava un conte che ti pagava per inserire certe parti per eccitare la folla, o si aggiungeva, si cambiava… su una struttura solidissima. Era un periodo estremamente vitale, andavano a teatro tanto i Lord quanto il garzone di bottega e il criminale, quindi il pubblico era estremamente presente nella mente di chi scriveva e di chi recitava: si lavorava per lui.
Hai scritto quattro libri, tutti per le edizioni People: Pojana e i suoi fratelli, La guerra dei Bepi, La storia infinita del Pojanistan, e poi, uscita quest’anno, Shakespeare and me, un’autobiografia che mi è piaciuta moltissimo e sulla quale ho solo una perplessità: perché tante citazioni? Eraclito, Cacciari, Gramsci, Emily Dickinson, Oscar Wilde, Harold Bloom… Magari mi risponderai che è perché hanno detto certe cose prima e meglio di te, ma non c’è anche il desiderio di far sapere che un attore non è un ignorante, anzi?
Certamente. Nel momento in cui l’editore mi ha proposto di scrivere del mio rapporto con Shakespeare, mi è scattata la voglia di far sapere che ho letto un sacco di libri.
Nella tua autobiografia racconti molto dei tuoi genitori. Tua madre, comunista…
Durante la guerra, quando mia madre aveva quindici anni, i tedeschi le hanno ucciso il padre. Matrimonio in chiesa solo perché altrimenti le rispettive nonne li avevano minacciati di buttarli in strada, e comunque in una parrocchia lontana perché essendo comunisti il parroco non volle sposarli. Casa nostra sempre aperta, e dato che quello che semini raccogli, al funerale c’era tanta gente, quella che aveva lavorato con lei quando faceva la sarta, amici, persone arrivate da altri paesi. Sono venuti i vecchi compagni della sezione di Brusegana (poi Guido Rossa, dal nome del sindacalista ucciso dalle Brigate Rosse), e hanno portato la bandiera originale ricevuta in dono alla fine della guerra dai comunisti bolognesi che l’avevano fatta. Sembrava che di questa bandiera si fossero perse le tracce, invece la persona che ce l’aveva è arrivata e l’ha posata sul feretro.
Tuo padre, partigiano…
Era molto simpatico e davvero buono. Solo dopo la sua morte, nel 1999 quando io avevo trent’anni, ho scoperto che era stato un partigiano, finito a diciassette anni nel campo di concentramento di Ebensee. Non aveva perso la gioia di vivere. Mia madre appena sentiva parlare tedesco si incattiviva, lui invece usava il tedesco imparato nel campo per fare amicizia con i turisti quando li incontrava. E diceva: «Non tutti i tedeschi erano nazisti, non me la posso prendere con l’intero popolo».
Tra le citazioni di Shakespeare and me, questo passaggio di Umberto Saba: «Gli Italiani vogliono darsi un padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli». Illuminante. Mi suona vero. Quindi non rivoluzioni, ma guerre civili.
Anche a me è una lettura della storia e del carattere italiano che suona vera. Non c’è stata un’autentica rivolta contro il fascismo, ma i fratelli si sono divisi, da una parte quelli rimasti iperfedeli e dall’altra quelli che hanno detto no, bisogna ribellarsi. Alla fine chi è che rappresentava il regime? Gli altri fratelli, non i padri. Questa idea di Saba mi ha colpito perché in quel momento stavo lavorando su Re Lear, un padre che si spoglia del suo ruolo genitoriale e si trova coinvolto in una guerra civile.
Siamo quindi un popolo di invidiosi?
Sì. Un giorno uno dei miei maestri mi ha fatto un esempio bellissimo sul perché facessi fatica a uscire da una difficile situazione professionale. Mi ha raccontato dei granchi messi a bollire in una pentola. Secondo una teoria americana suffragata dall’osservazione, qualche granchio cerca di scappare e ci riuscirebbe, appena si solleva il coperchio, se non venisse ricacciato indietro dagli altri granchi. Così sono gli umani. Spesso i tuoi pari non vogliono che tu esca da un certo seminato, per vari motivi che metteremo sotto l’etichetta “invidia”.
E il padre? C’è una gran voglia, e c’è sempre stata, di affidarsi all’uomo della provvidenza. Perché?
Per capirlo ci vorrebbero uno strizzacervelli, un antropologo e un sociologo, tutti insieme. Veniamo dai Comuni, dalle Signorie, e forse è perché siamo stati così frammentati che sentiamo il bisogno di un padre che ci tenga uniti e soprattutto che dia botte… certamente non a noi, ma ai nostri fratelli.