Il regista compie 90 anni

Chi è Roman Polanski, maestro di suspance tra avanguardia e storia del cinema

Nessuno come lui ha saputo scavare nei labirinti della psiche. Maestro di suspense, profondo conoscitore dell’animo umano e delle sue miserie, il regista ha saputo fare di ogni suo film una vera opera d’arte

Cinema - di Giulio Laroni

17 Agosto 2023 alle 21:00

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Chi è Roman Polanski, maestro di suspance tra avanguardia e storia del cinema

Domani Roman Polanski compie novant’anni. Negli ultimi tempi, soprattutto dopo l’affermarsi del #MeToo, le note vicende penali che lo riguardano sono tornate al centro del dibattito pubblico e la sua opera è andata incontro a una progressiva emarginazione. Pochi – e tra questi il direttore della Mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera – hanno ricordato che il piano dell’analisi critica non va sovrapposto a quello del giudizio morale sull’uomo.

L’espulsione dall’Academy di questo grande cineasta, avvenuta nel 2018, rimarrà una pagina buia nella storia del cinema contemporaneo, e ciò al di là di qualsiasi valutazione sulle azioni che ha commesso. Polanski, di cui vedremo il nuovo The Palace all’80esima Mostra del Cinema, è un autore non facile da inquadrare, anche per la sua costante attitudine a sperimentare strade nuove. La sua formazione culturale è immersa nello spirito delle avanguardie e delle neoavanguardie: legge Gombrowicz, studia Beckett e il teatro dell’assurdo, si nutre di surrealismo.

È forse questo clima che infonde alla sua opera una forte vocazione anti-dogmatica (che lo accomuna al suo amato Buñuel), una profonda diffidenza verso ogni verità data in forma precettistica. Il suo è un cinema del dubbio, che rifiuta la lotta tradizionale tra bene e male e indaga sulle espressioni più oscure dell’animo umano. Parafrasando Clouzot: “Voi credete che il bene sia la luce e l’ombra sia il male. Ma dov’è l’ombra? Dov’è la luce?”. L’esperienza della tragedia del nazismo, la deportazione dei genitori, la morte della madre ad Auschwitz lo inducono a una forte avversione per il pensiero totalitario, che si esprime ad esempio in una fede nel diritto come luogo delle sfumature, come ne L’Ufficiale e la spia (2019), o nella democrazia come alternativa alla vendetta: la Sigourney Weaver de La morte e la fanciulla (1994), scoperto per caso colui che l’aveva seviziata per conto di un regime filofascista sudamericano, decide di torturarlo con l’intenzione di ucciderlo, ma alla fine gli salva la vita, e così facendo non fa di lui un martire.

Memore della Polonia del blocco sovietico, Polanski è anche nemico dell’arte impegnata (come fa dire al protagonista di Venere in pelliccia, 2013), che subordina la forma di un’opera alla sua valenza sociale e assegna ad essa una funzione pedagogica. Il cinema ha invece per lui una forte componente soggettiva, interiore, rappresentata idealmente dal tema dell’occhio, dall’osservazione come gesto fondamentale. Questo atteggiamento, presente sin dai suoi esordi (ad esempio nel cortometraggio Un sorriso dentale, 1956, sul voyeurismo), è evidente ne L’inquilino del terzo piano (1976), che potrebbe quasi essere una rilettura surrealista e kafkiana de La finestra sul cortile (1954), ed è centrale anche ne Il Pianista (2002), in cui gli orrori del nazismo sono filtrati attraverso gli occhi di Szpilman, che spiano attraverso i vetri rotti delle case.

Non sorprende che un cinema così attento alla dimensione privata tenda fortemente verso il dato psicologico e sappia addentrarsi in modo attendibile nel mondo della malattia psichica, come nel già citato L’inquilino del terzo piano, viaggio nella schizofrenia paranoide, o in Repulsion (1965). La scrittura filmica di Polanski ha una tonalità limpida, nitida, spesso raggelata. Rifugge dalle sdolcinature, si accosta alla materia con uno stile quasi asettico, come in una descrizione anatomica. Ci sono spesso nel suo stile qualcosa di acre e di acido, delle scosse aspre, un gusto corrosivo. Forse la definizione di Lautréamont potrebbe applicarsi agevolmente anche alla sua opera: “Bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire ed un ombrello su un tavolo di dissezione”.

Se questa tendenza rimane ad uno stadio superficiale, di conflittualità non dialettica, può dar vita a un cinema delle sensazioni, a una sorta di maniera del conturbante, dove la ricerca dell’inquietudine prende le forme di un sensualismo un po’ fine a se stesso. E così il tema della degradazione, centralissimo in Polanski, si esprime talora in un effettismo insinuante, in un turbinio di psicologismi contorti. Film come Cul de sac (1966), Luna di fiele (1992),Venere in pelliccia (2013), Quello che non so di lei (2017), tutti all’insegna di una raffinata configurazione tecnica, rimangono invischiati in un paradigma ideologico, che mette in scena il rapporto di vittima e carnefice attraverso un frigido, ripetitivo schema sadomasochistico, soffocato in una gamma di emozioni ristretta.

È il lato più borghese di Polanski, che in questi casi non sa cogliere l’essenza reazionaria di un modello che fissa in modo rigido i ruoli di servo e padrone, dimenticando la lezione di Sartre: nessuno nasce vinto, né vincitore. Nel Polanski migliore i conflitti emotivi trascendono invece il piano della mera opposizione e si elevano a quello della contraddizione dialettica, avvicinandosi alla dimensione dell’assurdo autentico e dell’atonale. L’inquilino del terzo piano, ad esempio, è un’affascinante, libera avventura intellettuale che sfugge costantemente a qualsiasi pietrificazione, tradisce continuamente ogni conciliazione e si presenta come un flusso di coscienza, quasi un modello di scrittura automatica.

In Rosemary’s baby (1968) le inquietudini interiori si proiettano nella dimensione dell’anima e assumono una consistenza eterea, lunare; in Macbeth (1971), forse l’esito più affascinante di Polanski, danno vita a una grandiosa, disperata discesa agli inferi, con una finissima ricerca cromatica nei costumi; in Tess (1979), da Thomas Hardy, si trasfigurano in un grande affresco. Chinatown (1974), pur nella sua elegante costruzione, porta invece il suo stile a un grado quasi estetizzante, vagamente virtuosistico.

È forse da Welles, uno dei suoi autori di riferimento, che Polanski apprende l’uso sapiente della profondità di campo, la gestione accurata dei rapporti tra primo piano e sfondo: si pensi ad esempio a certe scene di Carnage (2011). Da Hitchcock impara l’uso della suspense e della “dramatic irony”, cioè la capacità di trasmettere un’informazione allo spettatore prima che uno o più personaggi la apprendano, che troviamo tra l’altro in Cul de sac o in Rosemary’s baby. Egli è anche un acuto direttore d’attori, capace di gestire pochi personaggi in ambienti ristretti: da Il coltello nell’acqua (1962), tuttora straordinariamente moderno, a La morte e la fanciulla, a Carnage, a Venere in pelliccia.

Come ricorda Alberto Scandola nell’interessante studio dedicato al cineasta, Polanski studia il film burlesque già nei programmi della scuola di cinema di Łódź, e ciò contribuisce a trasmettergli una passione scanzonata per i movimenti fisici degli attori, per la corporeità. Non mancano in lui le ricadute nel kitsch (come nel suo terribile, pittoresco Oliver Twist, 2005), né le concessioni alle istanze della commercialità. Ma questo cineasta ormai novantenne, dallo stile trattenuto e dallo humor pungente, rimane uno dei più giovani, moderni e avanzati maestri viventi del cinema contemporaneo.

17 Agosto 2023

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