La guerra alla droga
Pena di morte, a Singapore al patibolo per pochi grammi e pochi spiccioli
La guerra alla droga non colpisce i grandi narcotrafficanti ma i pesci piccoli. Per questo reato mai concessa una grazia
Esteri - di Piero Zilio
Singapore ha dichiarato guerra alla droga. Ma come si combatte un oggetto inanimato? Per il Governo di Singapore la risposta è semplice: impiccare chiunque traffichi sostanze stupefacenti. Il Ministro della Giustizia e degli Interni ha sottolineato come i grossi trafficanti stiano lontani da Singapore grazie a questa politica di tolleranza zero. Vero. Ma tenere lontani i grandi narcotrafficanti non significa necessariamente interrompere il loro traffico.
I boss mandano avanti un esercito di pedine pronte a rischiare la vita per pochi dollari, i cosiddetti “muli della droga”, che contrabbandano sostanze illegali nella ricca e ordinata isola asiatica. E che una volta catturati fi nisce immancabilmente sulla forza, senza alcuna pietà. Negli ultimi trent’anni, il Presidente di Singapore non ha mai concesso la grazia alle centinaia di condannati a morte per questo tipo di reato. Si punisce con la massima severità il traffico di qualsiasi tipo di droga, inclusa la cannabis. Nel 2022 il boia ha azionato la botola del patibolo undici volte. Quest’anno il nodo scorsoio ha già interrotto l’ultima caduta di cinque persone. Perché la classe politica singaporiana misura il successo di questa guerra sul numero di impiccagioni dei pesci piccoli, a prescindere dal reale andamento del consumo di sostanze stupefacenti – ininterrotto – o dall’efficacia dei centri di riabilitazione per tossicodipendenti, per i quali sono passati molti dei cittadini condannati a morte.
A proposito di giustizia: i processi avvengono nel pieno rispetto della legge. Che a Singapore non prevede il diritto al silenzio. Che non consente agli avvocati di essere presenti durante gli interrogatori, quando l’arrestato fi rma la confessione che lo porterà sulla forca. Per legge, nei reati di droga vige il principio della presunzione di colpevolezza: spetta all’accusato dimostrare la propria innocenza, in un sistema in cui la pena di morte scatta obbligatoriamente oltre soglie molto basse. La Corte deve inoltre approvare le richieste di appello prima che i condannati possano presentarle, e molti avvocati evitano i processi capitali per timore dei pesanti costi personali inflitti alla difesa, lasciando gli imputati soli ad autorappresentarsi davanti al giudice.
Fra aprile e maggio sono stati impiccati 2 uomini per traffico di circa un chilo di marijuana. Il primo, Tangaraju s/o Suppiah, non è stato nemmeno trovato in possesso degli stupefacenti. È stato condannato e impiccato per presunta progettazione di traffi co di 1.079 grammi di cannabis, come si legge nei documenti uffi ciali del tribunale. Fra il 26 luglio e il 3 agosto invece, nel giro di quasi una settimana, sono stati impiccati altri due uomini e una donna per il traffi co di poche decine di grammi di eroina. Era dal 2004 che Singapore non affi – dava una donna al boia per reati di droga. Madre tossicodipendente, Saridewi binte Djamani aveva dichiarato di essere stata interrogata nel mezzo di una crisi di astinenza e depressiva, senza riuscire a comprendere la confessione che aveva firmato. Non si conosce invece il nome dell’ultimo condannato impiccato mercoledì scorso, perché i familiari hanno chiesto di mantenere il riserbo. Hanno però avuto la forza di rendere pubblica questa nuova esecuzione, che altrimenti sarebbe passata inosservata.
All’inesorabilità con cui si svolgono i processi e le esecuzioni, si aggiunge infatti una certa segretezza, o parsimonia di informazioni, con cui il Governo di Singapore gestisce i singoli casi una volta emessa la condanna. Nessuno sa esattamente come avvengano le esecuzioni, con quale criterio siano programmate, quante persone siano state effettivamente uccise o detenute nel braccio della morte. Frammenti di orrore emergono grazie ai familiari che rendono pubbliche le notifiche di esecuzione, con cui le Ong cercano di raccontare e sensibilizzare l’opinione pubblica per cambiare questa situazione. Diversi attivisti del Transformative Justice Collective di Singapore hanno pagato le conseguenze del dissenso, in un paese dove sono sufficienti raggruppamenti di più di tre persone per finire classificate come “manifestazione non autorizzata”.
Ma i dissidenti locali non si lasciano intimidire, e molte altre Ong sostengono questa protesta pacifica. Il 27 luglio si è tenuta una manifestazione contro la pena di morte nella vicina Malesia, davanti alla rappresentanza di Singapore a Kuala Lumpur. Hanno partecipato dieci associazioni, fra cui Amnesty International, che da anni denuncia la violazione dei diritti umani di condannati, attivisti e avvocati a Singapore. In questa piccola isola-stato del sudest asiatico, il processo giusto ed equo è un concetto su cui riflettere, come anche il successo della sua guerra alla droga.