Il dossier
Spionaggio antimafia: perché chiunque può cadere nella rete
Politici spiati, quei dati provenienti dal sistema bancario che ha l’obbligo di segnalare le “operazioni sospette” aggravano le responsabilità di chi ha messo insieme quei dossier
Giustizia - di Iuri Maria Prado
Ci sarebbe nuovamente il sigillo antimafia, la patacca buona a giustificare ogni sorta di abuso, sulle operazioni di dossieraggio con cui alcuni pubblici ufficiali avrebbero raccolto dati relativi alle attività di politici e imprenditori, puntualmente finiti sui giornali. Ieri le prime cronache riferivano che gli episodi di divulgazione di quei dati sui mezzi di informazione erano “pochi”: come se dovesse tranquillizzare il fatto che la bava velenosa di un’attività di spionaggio in seno all’amministrazione pubblica, e prodotta da appartenenti alla stessa amministrazione pubblica (non da banditi intrufolati), ha contaminato dopotutto solo in qualche occasione (mica tutti i giorni!) il circuito dell’informazione italiana.
Il fatto che questi dati provenissero dal sistema bancario – che ha l’obbligo di segnalare alle autorità competenti, tra cui quelle “antimafia”, la presenza di “operazioni sospette” – aggrava anziché attenuare la responsabilità di chi ha messo insieme quei dossier giunti inopinatamente (si fa per dire) nelle redazioni del glorioso giornalismo d’inchiesta: così come, appunto, peggio semmai ci si sente quando si apprende che la cosa avveniva a spizzichi e bocconi, secondo il tipico protocollo mafioso della delazione anonima a puntate. Ma diciamo immediatamente che le indagini della Procura perugina, che per ora sarebbero a carico di un unico funzionario (il quale respinge gli addebiti), non potranno rendere ragione di un sistema che se non è preordinato alla commissione di simili abusi certamente li rende possibili.
Varrà la pena di ricordare che è eseguito in nome della trasparenza antimafia il rastrellamento giudiziario di trecentocinquanta persone che coinvolge il responsabile dell’estorsione di un cabarè di pasticcini. Sarà bene tenere a mente che è disposto in nome della trasparenza antimafia il sequestro dell’azienda perché il cugino del titolare è stato visto a un party col pregiudicato. Sarà il caso di non dimenticare che è ordinato in nome della trasparenza antimafia l’arresto del medico settantenne che ha prescritto un farmaco per la cura del cancro di un boss.
E bisogna ficcarsi in testa che è tessuta in nome dell’antimafia la rete di leggi e adempimenti e filtri e dispositivi che un qualsiasi funzionario disinvolto è in grado di dispiegare quando vuole, come vuole, dove vuole per farci cadere dentro pressoché chiunque: perché c’è posto per la responsabilità di chiunque nel sistema antimafia che pretende di scovare il crimine nell’incarto delle pasterelle e nelle frequentazioni del prozio del pizzicagnolo dell’intercettato.
Ma qui – per il soprammercato di una tigna liberale indiscutibilmente deplorevole, perché rivolta alla tutela dei potenti di cui notoriamente si fa ventriloquo il garantismo peloso – qui c’è da denunciare la piega particolarmente allarmante di quest’ultima ipotesi (chiamiamola ipotesi, per ora) di interferenza dello spionaggio antimafia: e cioè che la faccenda riguarda esponenti politici.
Che saranno anche tutti mascalzoni, secondo il criterio cingolato dell’onestà giudiziaria, ma ancora costituiscono un residuo dell’organizzazione democratico-rappresentativa formalizzata in quest’altro residuato, la Costituzione della Repubblica, secondo cui la sovranità non appartiene né ai militari della Guardia di Finanza né e pubblici ministeri. E quelli, gli orrendi politici, rappresentano un presidio in ogni caso più affidabile (anche perché revocabile) rispetto al potere in divisa o in toga (è uguale) che assembla e distribuisce veline.