L'intervista
Tutti pazzi per Stefano Nazzi: “Il male esiste, è inutile chiamarli mostri e porli fuori dall’umanità”
Il giornalista de Il Post autore di "Indagini", premiato nella categoria "True Crime" agli Italian Podcast Awards, e in libreria con "Il volto del male". "Tutto ciò che è oscuro attrae. Non saprei però perché si va in gita a vedere la casa di un omicidio, perché i serial killer ricevono decine di lettere da ammiratrici"
Cultura - di Antonio Lamorte
Stefano Nazzi raccontava già da tempo quando ha capito come non avrebbe più voluto scrivere. Zero aggettivazioni, niente più frasi fatte. Scriveva di cronaca nera. Per Plus, per Mondadori, per il magazine Primo Piano, per Gente. Prima di arrivare a Il Post. Il suo podcast Indagini ha vinto il premio dell’anno nella categoria “True Crime” agli Italian Podcast Awards. Una maniera diversa, senza pornografia e sensazionalismo di raccontare delitti più o meno noti al grande pubblico. Sono spuntati gli “indaginers”, è diventato un piccolo cult.
Nazzi ha appena pubblicato Il volto del Male per Mondadori. Male che per alcuni ricercatori nasce nel “fattore D”, il fattore Dark che spinge a “massimizzare la propria utilità individuale”, a mettersi sopra tutto e tutti. Il giornalista ha meno certezze, è più tiepido sulle risposte. Come e dove nasca il male resta un mistero. Nazzi ha raccontato a L’Unità un po’ di questa cronaca nera spiegata bene, e del piccolo fenomeno che sta rappresentando.
Si aspettava questo successo?
No, non me l’aspettavo. Speravo di fare un buon lavoro e mi ci sono impegnato molto ma non avrei mai pensato potesse avere questo successo. Poi certo, è un podcast, parliamo sempre di un mondo piuttosto circoscritto, ma sono molto contento.
Com’è nato il podcast?
Da un’idea mia e di Francesco Costa, che all’epoca era il responsabile dei podcast de Il Post. Avevamo la stessa idea, quella di affrontare la cronaca nera e la cronaca giudiziaria con il nostro linguaggio. Senza dettagli inutili, spettacolarizzazioni, sensazionalismi. C’è stata molta gente che evidentemente ha apprezzato il fatto che ci fosse un modo diverso per trattare queste storie. La cronaca è sempre più raccontata andando a cercare dettagli che c’entrano poco con le vicende, in una sorta di voyerismo e di spettacolarizzazione continua.
Ha detto in un’intervista di aver “imparato come non volevo più scrivere”.
Sono tanti anni che seguo la cronaca. Ho imparato tante cose, ho imparato come approcciarmi e ho visto come il racconto cambiava sempre più. È stato un crescendo. A un certo punto ho capito come io non ho avuto più voglia di scrivere di determinate cose.
C’è stato un momento preciso in cui è cambiato?
No, io ho sempre cercato di scrivere, come tanti altri, in maniera più fredda e distaccata possibile. Non posso parlare di un momento. Ci sono state delle vicende, come quella di Avetrana che davvero è stata un cortocircuito tra i media e la cronaca, che mi hanno portato a vedere le cose come le vedo adesso.
Si è spiegato questo interesse morboso da parte del pubblico per la cronaca nera?
È una domanda che mi faccio da tempo. La cronaca attrae il pubblico praticamente da sempre. Perché ci sia stata una deriva sempre più morbosa non saprei spiegarlo. E se tanti giornalisti la raccontano in quel modo è perché c’è un pubblico che gradisce quello stile. Non mi sono dato una risposta. Posso dire che attrae tutto ciò che è oscuro. Non saprei però perché si va in gita a vedere la casa dov’è avvenuto un omicidio, perché i serial killer ricevono decine di lettere da ammiratrici e ammiratori. Tutto questo sfugge alla mia comprensione.
Non crede che tanti sentano una specie di fascinazione, una sorta di rispetto per chi il male riesce a esercitarlo?
Sì, forse tanti vivono la propria aggressività in una maniera più repressa. Per fortuna. E vengono affascinati da chi non controlla la propria violenza.
Cito il critico Matteo Marchesini: “Quasi tutti siamo delle tricoteuses della nera, che ci raggiunge con una potenza e capillarità inaudite. Non per caso è dilagata a partire dagli anni 90, col crollo delle grandi narrazioni ideologiche e la drastica diminuzione della vita attiva, militante: le semplificazioni del giallo, che non finisce mai di complicare paradossalmente le cose per aggiungere una puntata in più, sono diventate la nostra Weltanschauung (e alcuni magistrati ne hanno preso atto)”.
Non sono così d’accordo. Se andiamo a vedere i giornali degli anni ’60 e ’70 la cronaca nera era già molto presente. Il delitto Montesi ha occupato per settimane le prime pagine all’epoca. La cronaca nera ha sempre attratto.
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Un caso che più degli altri ha segnato gli italiani.
Sicuramente il delitto di Cogne, un punto di svolta per tanti motivi. Gli italiani si divisero tra chi diceva che una madre non poteva aver commesso quel reato e chi invece accusava Annamaria Franzoni. Segnò anche un punto di svolta perché, come disse l’avvocato Aldo Federico Grosso che in un primo momento difese Franzoni, la televisione entrò di fatto nelle strategie difensive, venne utilizzata per creare empatia. Per tanti versi quella storia ha segnato molto gli italiani e la stessa narrazione della cronaca. Ancora oggi salta fuori spesso la storia terribile di quel delitto.
Il caso che ha colpito di più lei.
Quello delle cosiddette “Bestie di Satana”, uno dei casi in cui non c’è un minimo di risposta. Ci sono delitti in cui vedi un progetto criminale, malato, ma in quel caso nessuno di loro ha mai saputo abbozzare una risposta sul perché l’avessero fatto. Una cosa che colpisce.
Cosa ha scoperto in questi anni sul Male?
Non è che abbia scoperto molto. Ho preso atto che esiste, che per fortuna le persone che fanno del male ad altre persone sono un’infinitesima minoranza della società e del mondo che ci circonda, statisticamente sono niente. Certo, quando un caso ti riguarda, quando ci si trova dalla parte delle vittime, quel delitto prende tutto. Non si può pensare che il male non ci sia, non basta chiamarli mostri e dargli appellativi per porli al di fuori dell’umanità. Ci sono ed esistono, per fortuna in una percentuale piccolissima nella società.
A proposito della Riforma della Giustizia: la proposta del governo punta a pubblicare le intercettazioni soltanto quando sono citate negli atti dei giudici. Che idea si è fatto?
C’entra molto la scelta personale dei direttori dei giornali. Pubblicare le parti delle intercettazioni che non c’entrano niente con l’indagine o con le persone al centro delle indagini è un errore. Perché serve ad altro, a connotare una persona o a orientare l’opinione pubblica. Ciò che non c’entra con le indagini non dovrebbe essere pubblicato. Meglio che si pubblichino solo le informazioni che hanno una rilevanza nell’ambito dell’inchiesta specifica.