I 75 anni di Israele
L’ultimo azzardo di Re Netanyahu
Pubblichiamo un estratto del saggio di Enrico Catassi, Umberto De Giovannangeli e Alfredo De Girolamo nelle librerie dal prossimo 15 luglio per Edizioni ETS.
ADDIO BEN-GURION
In 75 anni di storia Israele non è riuscito a scrivere una costituzione, di cui si sarebbe già dovuto dotare, secondo quanto esplicitamente enunciato nella stessa Dichiarazione di Indipendenza e specificato dalla risoluzione 181 delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, che prevedeva la spartizione della Palestina in due stati. Sebbene allora il temporaneo Consiglio di stato avesse formalmente l’autorità per redigerla nessuna bozza è mai stata scritta, né tanto meno ratificata sino ad oggi.
«Se cominciamo a dibattere su argomenti filosofici, danneggeremo i bisogni essenziali dello stato: i preparativi per l’aliyah, l’insediamento, l’innalzamento degli standard di vita. Queste a mio avviso sono le questioni primarie per la Knesset e per lo Stato. Il tema della costituzione ci devierebbe completamente su un altro corso». E se non fu prioritaria per Ben-Gurion (politico e a lungo primo ministro, familiarmente noto con il soprannome di Hazaken) figuriamoci per altri.
Alla base della posizione dello statista israeliano c’erano considerazioni pratiche e ragioni ideologiche, come lui stesso articola in modo esplicito davanti alla Knesset il 13 luglio 1949: «È possibile che questa generazione abbia un certo peso etico, ma non ha saggezza maggiore di quelle che verranno dopo. Siamo sicuri che coloro che verranno dopo di noi non avranno il nostro stesso buonsenso, la stessa devozione, che non capiranno i bisogni della nazione come abbiamo fatto noi? Perché dovremmo dargli dei limiti? Penso che questa idea sia priva di fondamento, sia moralmente che logicamente».
Il concetto espresso da Ben-Gurion, con i suoi paradossi, sembra giustificare la presente azione di ribaltamento degli assetti democratici introdotta da “Bibi” Netanyahu. Tuttavia, anche se sia nel pensiero di Ben-Gurion che in quello Netanyahu è dominante il principio della forza trainante della maggioranza (e della retorica del “faremo ciò che pensa”), nel primo c’è la percezione che questo postulato sia una forma di immunità di gregge che protegge dal virus della divisione e dell’arroganza, in Bibi è invece avvertito come strumento di ritorsione al sistema, di cui si sente vittima, ed è sostanzialmente una forma di arroganza del leader sulle leggi.
La morale di Ben-Gurion del «se ci fossero persone della nostra generazione che chiedono per sé speciali privilegi legali, mi opporrei», è discordante da quella del pluri-indagato Bibi, che vanta il diritto di arrogarsi l’immunità nei processi per corruzione in cui è indagato. Sia Ben-Gurion che Netanyahu condividono l’assioma che in Israele il tema della catarsi della natura dello stato è un’evoluzione su cui impattano anche i movimenti religiosi, che da sempre spingono per dare un senso teocratico allo stato. E a cui Netanyahu ha dato campo libero e credito in questo governo, credendo di poter controllare le “erbacce selvatiche che sarebbero cresciute nel giardino”.
Arte del giardinaggio che non mancava a Ben-Gurion, il quale fu strenuamente convinto che l’occupazione fosse sbagliata, che il concetto di “pace” con gli aggressori arabi era moralmente e militarmente insindacabile e che il bene generale (primato dello stato) fosse da anteporre a qualunque cosa. Con Netanyahu il teorema pacifista prende una forma priva di sostanza ed anima, eterica e superflua. Al tempo stesso, vede il mondo arabo come un suk dove fare affari d’oro. E nel suo regno ideale il sovranismo si eleva a ordine.
Nel dicembre 2014, durante le celebrazioni della 41° ricorrenza della morte di David Ben-Gurion, avvenne un confronto teso tra, da un lato, Shimon Peres e Reuven Rivlin, al tempo rispettivamente ex ed attuale presidente, e dall’altro l’allora primo ministro Benjamin Netanyahu. I primi accusarono il secondo di andare contro i principi democratici di Israele. Il secondo si difese dicendo di seguire pedissequamente il messaggio del padre fondatore della patria. Proprio sulla tomba di Ben-Gurion, luogo scelto non casualmente dai contendenti per il duello, si scontrano pubblicamente la visione dello stato-nazione ebraica avanzata da Netanyahu (e poi approvata nell’estate del 2018) e la ferma contrarietà a tale proposta.
Il dibattito aveva preso una piega mal digerita da Peres e Rivlin, che prefiguravano il rischio illiberale. Su quella lapide nel deserto si lottava, col coltello fra i denti, per l’eredità ai diritti della storia e alla sua proprietà intellettuale: “Che cosa avrebbe pensato Ben-Gurion se fosse vivo oggi?”. Chiedeva Bibi alla platea, consapevole che a quella domanda retorica e provocatoria non c’è risposta. Qualche anno dopo il progetto di instaurare la democratura iniziò a palesarsi nella Knesset, scatenando una forte reazione pubblica (per certi versi madre di quella che il movimento pro-democrazia porta avanti, in questi mesi, contro la riforma della Giustizia proposta dall’attuale esecutivo di Netanyahu).
Il cambiamento che ha preso forma nel solco tracciato da Netanyahu è il frutto, amaro, di una accelerata su posizioni neonazionaliste, populiste e sovraniste, un cammino culminato nel dicembre 2022 con la formazione del governo più a destra di sempre. Che ha fatto calare il sipario su un’idea di sionismo, e su quello che rimane di un sogno di sinistra che l’ha accompagnato in questa non semplice e, spesso travagliata, avventura. Per spiegare come siamo arrivati ad un passo dal baratro della democrazia e dei diritti in Israele dobbiamo riavvolgere il nastro. Prendere atto che le metamorfosi machiavelliche di Bibi in questi anni sono state semplicemente funzionali al mantenimento del potere. E vanno inquadrate in un piano dialettico al di sopra della connotazione ideologica destra vs sinistra.
Senza tuttavia negare la propria appartenenza, storia e cultura. Bibi non solo è oggi il massimo esponente del pensiero di Vladimir Jabotinsky (ispiratore della destra israeliana) – “per cui lo Stato di Israele non è un mezzo per raggiungere un grande ideale, lo Stato è il grande ideale” – ma è colui che ha saputo applicare questo concetto contestualizzandolo al marketing della politica in un modo tutto suo. Bibi ha collaudato un suo metodo di compromesso politico: salda la lealtà dei partiti religiosi elargendo poltrone. Mantiene in spalla il fardello dei razzisti, per banale necessità. «Netanyahu è il primo ministro più longevo della storia di Israele. L’unico ad essere ritornato per due volte in carica dopo essere stato all’opposizione. Oggi però ha perso il controllo del suo mostruoso sesto governo, per sopravvivere si tiene saldamente aggrappato nel cavalcare la tigre che ha nutrito e allevato», ha scritto Anshel Pfeffer nella postfazione del libro.
In mancanza di una costituzione formale il falco della destra per scardinare l’impianto vuole introdurre una normativa che prevede di rimuovere l’unico vero ostacolo istituzionale che rimane sul suo cammino, la Corte Suprema. Persino l’avversione di Hazaken alla Corte Suprema ha dei distinguo di fondo con quella di Bibi. Per il socialista Ben-Gurion, nato in Polonia sul finire dell’800, i giudici sono espressione di un modello reazionario. In Netanyahu la lettura è diametralmente opposta: sono la lunga mano della sinistra elitaria che complotta per roversciarlo.
E nei suoi piani il depotenziamento del potere dei giudici avverrebbe sia assoggettando la loro nomina al governo (modificando il processo di selezione) che riducendo quei meccanismi di equilibrio e controllo, che caratterizzano le democrazie liberali avanzate (attraverso la clausola di superamento che permetterebbe al parlamento di scavalcare le decisioni della Corte con una semplice maggioranza qualificata). Ciò comporta automaticamente pesanti ricadute su tutto l’apparato istituzionale. Consentire alla Knesset di ergersi al di sopra del controllo della Corte Suprema, che viene delegata a subire passivamente le “raccomandazioni” del parlamento, è largamente considerato un paradosso.
«In sostanza – spiega Amir Fuchs in The Override Clause Explainer – questo consentirebbe alla maggioranza di fare ciò che vuole ignorando le sentenze dell’Alta Corte, sia ab initio che post factum». La pericolosità è una falla nel meccanismo di bilanciamento dei controlli ed equilibri dello stato. E su questo punto Fuchs, esperto di valori democratici e legislazione antidemocratica, è chiaro: «In Israele, la Corte Suprema è l’unico freno al potere della maggioranza politica. Una clausola non ostativa trasformerebbe il Paese in una delle democrazie più deboli del mondo, costituzionalmente parlando: i diritti umani e le minoranze non avrebbero alcuna protezione efficace contro la maggioranza».
Siamo nel bel mezzo ad uno scontro infuocato e frontale, che investe il futuro della democrazia e minaccia di stravolgere il sistema in senso assolutistico. Una partita che il pluri-indagato Netanyahu si appresta a giocare da una posizione privilegiata. Nelle migliori condizioni per lanciare, a suo piacimento, un blitz a tenaglia per rimuovere gli intralci: da una parte impuntando la Knesset (blindata dalla maggioranza) e dall’altra colpendo tramite l’esecutivo (grazie al grimaldello del ministero della Giustizia). «Non c’è nessun Paese al mondo tranne il Canada (che ci insegna la lezione sui danni causati da una norma di “ostacolo”), dove una maggioranza parlamentare può ignorare la costituzione», conclude Fuchs. Ma non c’è nemmeno nessun Paese al mondo il cui leader è “braccato” dal fiato sul collo della magistratura, in un remake di un film di berlusconiana memoria.
L’ULTIMO AZZARDO DI BIBI
Capire Israele non è una cosa semplice, scontata, banale e soprattutto la sua attuale fase storica investe direttamente la nostra. Nel caso specifico la risultante è un quadro politico, con i suoi multiformi significati, variegati, talvolta contrastanti e persino allarmanti, che sono l’anima dell’odierna evoluzione della sua democrazia in qualcosa di diverso, apparentemente meno “sofisticato”. Raccontare tutto ciò al pubblico italiano è stato un modo per tornare a scrivere insieme dopo 10 anni, quando abbiamo pubblicato Israele 2013, Edizioni Ets. Con L’ultimo azzardo di re Netanyahu offriamo al lettore una analisi in presa diretta, ricomponendo un puzzle che intreccia polifonicamente le nostre considerazioni con le principali voci del dibattito sul presente e futuro di Israele.
Muovendoci in un contesto dalle tinte fosche, come bene spiega lo storico Gadi Luzzatto Voghera: «A settantacinque anni dalla creazione dello Stato d’Israele, tuttavia, si vanno facendo sempre più pressanti i segnali di una profonda crisi istituzionale che pone sfide che l’attuale classe dirigente fa fatica a inquadrare. Le tentazioni antidemocratiche di una certa destra si assommano alla debolezza e disomogeneità dell’opposizione liberale e progressista che non lascia intravedere prospettive di governo chiare». La presa del potere da parte di Netanyahu (grazie alla vittoria elettorale del 1 novembre 2022) ha prodotto, e accelerato, uno scollamento nella società israeliana. I risultati delle ultime elezioni hanno ratificato ciò che da tempo era chiaro: l’Israele conservatore, ha se non cancellato di certo messo in un angolo l’Israele secolarizzato. La destra ha vinto sia sul piano culturale che su quello politico.
Mentre, il centrosinistra si è incartato, morendo di troppo governismo. La crisi identitaria del grande pubblico di fede socialdemocratica (la sinistra sionista) si è trasformata in una fuga verso la zona maggiormente confortevole: il centro. Ed oggi la sinistra è costretta, per rigenerarsi, a fare affidamento al movimento di protesta che riempie le piazze da mesi, sfidando la riforma della giustizia. Al contrario, nel corso del nuovo millennio la destra israeliana si è rafforzata e le sue innumerevoli varianti sono oramai un’area talmente estesa che in questi anni Netanyahu ha potuto definire a suo piacimento il perimetro delle alleanze di governo. Fino a giungere, più per necessità che altro, ad un asse politico fortemente sbilanciato all’estrema destra, quella di matrice razzista e xenofoba.
Lasciando che il centro, l’unico polo a lui potenzialmente antagonista, accogliesse i suoi ex alleati caduti in disgrazia. Nota il professor Sergio Della Pergola: «Essere di destra è legittimo, è ovvio. È la democrazia, che va rispettata. Ogni popolo ha il governo che si merita. Il popolo segue determinati istinti, magari poi si pente, nonostante tutto la democrazia è la forma migliore che esista. Certo, in Italia nel 1924 ci furono le elezioni e Mussolini vinse nonostante lo scandalo della morte di Matteotti, mentre qui in Israele tra i vincitori c’è chi gioì per la morte di Rabin. Per questo sono preoccupato». Timori che troviamo anche dall’altro lato del muro, tra i palestinesi.
Per lo scrittore Raja Shehadeh: «È molto probabile che ci sarà più discriminazione nei confronti dei palestinesi in Israele, e già c’è il timore che tutto peggiorerà. Per quanto riguarda la Cisgiordania, la situazione è, credo, meno strutturale e più una questione di grado, perché abbiamo già avuto, dal 1979, cambiamenti nell’assetto di governo della regione, i coloni sono stati separati dai palestinesi e posti sotto un regime diverso ed annessi ad Israele, di fatto. E così la discriminazione colpisce i palestinesi e non i coloni israeliani. I sistemi esistono già, e questo nuovo governo non ne creerà di nuovi, ma userà i suoi poteri di amministrazione civile per aumentare le difficoltà ai palestinesi».
Se solo parte dei programmi elettorali, e poi dell’accordo di coalizione siglato dai partiti di estrema destra con i notai di Bibi, dovessero essere applicati alla lettera durante il mandato di governo è chiaro a tutti che gli effetti saranno deleteri per arabi, palestinesi, comunità LGBTQ+ e genericamente avversi alla laicità dello stato. Scriveva in un profetico editoriale David Horovitz, direttore del The Times of Israel: «Adesso Netanyahu mira davvero ad essere “Re Bibi”. Dobbiamo usare tutti i mezzi legali per contrastarlo. Sordo a tutti gli avvertimenti, convinto che i suoi interessi e quelli dello Stato siano identici, affiancato da criminali, estremisti e teocrati, è determinato a raggiungere un potere quasi illimitato. Per decenni, i suoi sostenitori hanno salutato Benjamin Netanyahu, Primo Ministro per oltre un quinto della vita di questo paese, come “Bibi, re di Israele”. Il titolo non è mai stato più azzeccato di oggi. Tornato sul trono politico nazionale dopo un breve interregno, Netanyahu detiene un potere straordinario come capo di una coalizione di estrema destra in gran parte simile alla stessa opinione pubblica, ed è intenzionato ad allargare ulteriormente la sua presa neutralizzando l’unica difesa contro gli eccessi suoi o di qualsiasi governo, l’Alta Corte di Giustizia. Se si dimostrerà in grado di spogliare la corte della sua indipendenza e delle sue capacità, Israele sarà veramente il suo regno. Come per i monarchi nel corso dei millenni, tuttavia, l’accumulo di potere assoluto ha coinciso con l’incapacità del nostro sovrano di separare i propri interessi personali da quelli dello stato, la crescente certezza che lui e solo lui può guidare efficacemente Israele, l’eliminazione delle voci dissenzienti, l’essersi contornato di un coro di “yes man” (e pochissime donne), e la conseguente convinzione che ogni mezzo è legittimo e necessario per consolidare la sua monarchia. La tragedia, per il regno, è che Netanyahu lo ha indirizzato sulla via della distruzione».
Il patto di governo che Bibi ha siglato con l’estrema destra razzista è vuoto di contenuti e principi morali, volutamente ambiguo e sconsideratamente pretestuoso. Siamo di fronte al classico esempio di un disastro annunciato. A sentire la difesa sperticata di Netanyahu in Israele non ci sono problemi, «non c’è ragione che vi preoccupiate» è il mantra che ripete ai quattro venti, da quando è tornato sul trono di Gerusalemme. Ma anche questa volta non è sufficientemente convincente. La risposta forse più pertinente sarebbe che i problemi Netanyahu se li è cercati, sapendo che lo avrebbero portato dove, purtroppo, voleva arrivare.
DUE POPOLI INFELICI
Israele è un paese che convive con l’anormalità, quella del conflitto perenne, del terrorismo, dell’occupazione e dell’odio etnico. Eppure, nel 2023 è diventato il quarto luogo più felice al mondo dove vivere, almeno secondo la classifica del World Happiness delle Nazioni Unite. L’indice di felicità globale tuttavia non tiene conto di Sapir Livnat Green, la giovane ventiseienne ebrea israeliana che il 9 maggio ad un checkpoint vicino a Hebron ha deliberatamente deciso di farsi uccidere, facendosi sparare dai militari in un presunto suicidio orchestrato con lucida follia. Alle spalle aveva una vita complicata.
Cresciuta in un contesto familiare segnato dalla malattia mentale della madre e dalla morte del padre. Un trascorso da senzatetto, ospedali e casa famiglia. Al termine del servizio militare gli era stata diagnosticata una seria forma di stress post traumatico. Problemi di depressione acutizzati con la scomparsa della migliore amica, causata da un overdose di barbiturici. Livnat Green è andata incontro alla morte con premeditazione. Ha annunciato il gesto via social, con tanto di emoji di scrollata di spalle a chi gli chiedeva se intendeva farlo. Ha indossato comuni abiti da donna araba, coprendosi il volto con il velo, preso una pistola ad aria compressa e si è fatta un ultimo selfie.
Poi ha raggiunto il posto di blocco e si è lanciata contro un soldato gridando “Allahu Akbar”. La tragedia di Livnat è un caso angosciante che fa riflettere. La modalità di azione che ha scelto per mettere fine alla propria vita è del tutto inusuale. In Israele nel 2019 ci hanno provato in quasi sette mila, uno ogni 1300 abitanti. Nel corso del 2022 i soldati israeliani che si sono tolti la vita sono aumentati rispetto all’anno precedente. “Abbandonati dallo stato e senza l’aiuto della famiglia”, hanno dichiarato i vertici dell’IDF nel presentare le statistiche. La colpa ce l’ha chi governa, chi non introduce politiche corrette, chi non offre servizi di livello ai cittadini, a partire da quelli ai più bisognosi e deboli, chi non lavora per costruire un futuro migliore, di pace, tranquillità e benessere sostenibile.
Livnat è vittima indiretta del conflitto. Lo sbaglio non è del soldato che ha premuto il grilletto, non è un caso di errore umano ma di agire come ti è stato impartito di fare, in quella determinata situazione. Nel mezzo ad una guerra, come continuiamo a scrivere da anni, logorante e assurda. Come si può vivere felici in un paese appeso al suono delle sirene che avvisano l’arrivo delle bombe? Andate a chiederlo ai cittadini di Sderot, che convivono con questo incubo quotidianamente. A chi invece non potete domandarlo sono Dania Adas, 19 anni, e la sorellina Iman, erano palestinesi di Gaza.
La loro sfortuna è stata di avere come vicino di casa un leader della jihad islamica, che un missile israeliano teleguidato ha fatto saltare in aria. Dania si era appena fidanzata e stava facendo i preparativi per il matrimonio. Raccontano che pochi istanti prima di essere sepolta dai detriti era raggiante al telefono. Come si può vivere serenamente in una striscia di terra succube di una dittatura fondamentalista e in guerra con Israele? È il fil rouge dell’infelicità di due popoli, troppo distanti per essere vicini.
Enrico Catassi,
Umberto De Giovannangeli,
Alfredo De Girolamo