Il ricordo

Walter Chiari e quell’ombra nera: non discutetelo, amatelo

Era solito salutare il suo pubblico dicendo: “Un saluto alla prima fi la e alla decima”. È vero. Ma non era solo un nostalgico. È stato un attore geniale

Cultura - di Fulvio Abbate

6 Luglio 2023 alle 19:00

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Walter Chiari e quell’ombra nera: non discutetelo, amatelo

Saranno stati i primi anni novanta, quando, su questo giornale, venne richiesto a un drappello di giovani scrittori di raccontare sulla pagina un proprio “mito”. Accadde che alcuni scelsero Che Guevara, meglio, litigarono per averlo assegnato in esclusiva, altri, metti, di Berlinguer, altri ancora Cesare Pavese o forse Elsa Morante. Quanto a me, volli Walter Chiari, così da dichiarare l’ammirazione per il suo talento inarrivabile, cominciando dall’immensa interpretazione di un padre fallito e insieme struggente ne “Il giovedì” di Dino Risi.

Nei giorni scorsi, sul Corriere della Sera, Simone Annicchiarico, amatissimo figlio di Walter, ha raccontato suo papà. Restituendo, fra molto altro, alcuni semisconosciuti umani dettagli della persona. Chiari, si sappia, si rivolgeva al pubblico teatrale con queste parole: “Un saluto alla prima fila e alla decima. Lui nella Decima Mas aveva combattuto davvero. Dopo, non sopportò l’egemonia della sinistra”. È noto che il nome e la memoria stessi dell’attore Walter Chiari da sempre ritornano nella narrazione revisionistica, venata di vittimismo cinto proprio del gladio che gli uomini di Salò portavano sul bavero delle uniformi. Parole della nostra destra, pronta a denunciare il “monopolio” della cultura e dello stesso spettacolo, sempre secondo quest’ultima, “in pugno alla sinistra”, anzi, “proprio ai comunisti”.

A Chiari, per cominciare, si attribuisce una frase, leggendariamente assolutoria, sulla sorte di Mussolini, destinata a suggerire la presunta specchiata onestà dell’economato del regime: “Quando fu appeso per i piedi a piazzale Loreto, dalle tasche non cadde nemmeno una monetina. Se i nuovi reggitori d’Italia avessero subito la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle tasche di lorsignori!”. Pronunciata a Genova, nel 1975, durante lo spettacolo “Chiari di luna”. Ora, che Walter Michele Annicchiarico (1924-1991) abbia vestito l’uniforme della Decima Mas e ancora, secondo testimonianze di commilitoni, si sarebbe perfino aggregato alla Werhmacht, partecipando all’offensiva nelle Ardenne, sembrerebbe un dato acquisito.

Nel dispositivo apologetico della destra che periodicamente sceglie di arruolarlo come icona, appare ancora quest’altra considerazione onnicomprensiva: “…lassù a Salò c’erano pure Dario Fo, che poi l’ha taciuto, Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello”. E ancora, aggiungo, il mio caro amico Riccardo Garrone, inquadrato nel battaglione nuotatori-paracadutisti sempre della Decima. Che Walter Chiari sia stato, grazie agli enzimi di un immaginario inesauribile, assai più di un immenso affabulatore sia comico sia drammatico, resta un dato, ma qui, forse, occorrerà altrettanto riflettere sul palmarès postumo che la destra dello Stivale mussoliniano ama periodicamente, dopo averlo lucidato, sollevare come reliquia spezzata, vilipesa, suggerendo così “l’onore” di chi “ritenne che il dovere stesse da quell’altra parte, quella sbagliata, dalla parte della Patria tradita…”.

Tempo fa, per esempio, e ne scrissi: la memoria di Chiari era stata ficcata dentro un obice polemico dal mio amico Luigi Mascheroni sul “Giornale”, muovendo dall’invenzione del leggendario Sarchiapone. Restituito altrettanto da Tatti Sanguinetti, cui si deve un antologia televisiva, “Storia di un altro italiano”, che di Walter riassumeva passi, ascesa e caduta, compreso il filmato che lo mostra mentre accoglie Laurel e Hardy, poveri, invecchiati, visi e gesti toccati dal tempo, nella loro tournée terminale, davanti ai binari della stazione Termini di Roma il 25 luglio 1950, con la folla che porta il Magro in trionfo sulle spalle e perfino le guardie di Ps che non trattengono un riso d’ammirazione infantile: “Che peccato, averli visti…”, è il requiem di Chiari per loro. Mascheroni, se non l’ho già detto, è giornalista intelligente e dotato di acume, ciononostante perfino lui non si sottraeva alla vulgata “nera” del caso Chiari, retorica del risarcimento post-fascista, dove perfino il Sarchiapone, metafisica da bestiario zoologico comico-fantastica, alla fine sembrava vestire anch’esso la divisa ora delle Brigate Nere ora della Guardia Nazionale Repubblicana, a seconda del turno-repliche.

Infine arruolato anche con le parole di Sanguinetti:Walter Chiari in quegli anni doveva venire fuori dal ghetto dove certa intellighenzia paleostalinista italiana l’aveva confinato, in quanto marò della Decima Mas – tutti i comici sopra la Gotica erano fascisti, e inoltre capiva che doveva contrastare il successo montante di Alberto Sordi, sfruttando la moda della americanità nella società italiana: Un americano a Roma è del 1954… E così tirò fuori dal suo immenso talento il Sarchiapone.  O meglio: il Sarchiapone americano…”.

Sembra quasi che in cima al rifornitore “Esso” di piazzale Loreto, accanto a Mussolini, Petacci, Starace, Pavolini e gli altri, abbia trovato posto idealmente anche il cadavere, non meno a testa in giù, dell’inerme Walter. Sembra così che egli non potrà mai farci dono dei suoi migliori istanti d’attore, né di “Bellissima” di Visconti accanto a Anna Magnani, né del personaggio struggente che troviamo ne “La rimpatriata” di Damiano Damiani e neppure de “Il giovedì”, dove Walter interpreta, si è detto, un padre fallito in gita in città con il proprio bambino; inarrivabile per struggimento la scena finale dove fa scoppiare le castagnole prese al figlio lungo la scalinata di via Ronciglione a Roma. Sempre Walter raccontava di un incontro con Luisa Ferida al Cinevillaggio di Venezia, pare che lei gli abbia suggerito di farsi incidere chirurgicamente gli angoli delle palpebre, conquistando così un taglio d’occhi perfetto.

Nei racconti ormai lontani di mio zio Guido, giovane amante di una ballerina della compagnia di Marisa Maresca, la stessa degli esordi di Chiari – è il 1945 – c’è Walter che inguaia quest’ultima nei giorni delle epurazioni, eppure quando raccontai questo ricordo personale proprio su “l’Unità”, subito giunse la lettera di un ex partigiano che, da Rapallo, narrava Chiari per nulla fascista, anzi, amico di un comandante partigiano “garibaldino” della piazza di Milano, l’anziano scrivente escludeva del tutto che lo fosse mai stato. Su tutto, tornando al talento, resta la sua generosità umana e d’attore.

Qualche anno prima di andarsene, in scena insieme a Renato Rascel nel claustrofobico “Finale di partita” di Samuel Beckett, al termine d’ogni replica sembra che Chiari intrattenesse il pubblico con fuori programma, riaprisse il sipario per “risarcirlo” con mille barzellette dopo l’incubo vissuto in nome del teatro d’autore dell’Assurdo. Chiari già reduce dalla cella di Regina Coeli, accusato di “consumo e spaccio di cocaina”.

Toccante il racconto che Mario Dondero, maestro della fotografia, mi ha donato di Walter Chiari: sono i giorni successivi al 25 aprile 1945, Mario, diciassettenne, veste ancora l’abito da partigiano della brigata – la “Cesare Battisti” della Val d’Ossola, fazzoletto rosso al collo – proprio in quell’istante la prima immagine che racconta ai suoi occhi la liberazione di Milano dai nazi-fascisti, il tempo di pace ritrovato, mostra un ragazzo magro e sorridente che, sotto un gran pavese di lampioncini colorati, in piedi su un palchetto improvvisato, ai bordi della piscina di via Pier Lombardo, canta un motivo appena portato al successo da Natalino Otto, canzone di quei giorni, “Solo me ne vo per la città”, ed è proprio lui, Walter Chiari. La grazia giocosa e felice della pace riconquistata sembra ricominciare in quell’attimo, il fascismo è ormai sconfitto, la morte e ogni orrore appaiono cancellati per sempre. Ora e sempre Walter!

 

6 Luglio 2023

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