La storia
Storia di Won, da trent’anni sulla soglia della forca
Corea del sud. Secondo la legge, dopo 30 anni la condanna a morte va in prescrizione. Won tornerà tra i vivi o resterà sul ciglio della fossa?
Esteri - di Sergio D'Elia
Il signor Won ha vissuto tra la vita e la morte per quasi trent’anni. Con cucita addosso una targhetta rossa, il colore che identifica i condannati a una morte che incombe come una spada sulla vita quotidiana. Nei suoi anni nel braccio della morte, Won ha visto passare davanti alla sua cella molti compagni diretti alla forca. Ogni volta ha pensato che il prossimo poteva essere lui.
Lo ha portato nel braccio un fatto orribile. Won non approvava della moglie la frequentazione dei Testimoni di Geova. Un giorno, ubriaco, entrò nella Sala del Regno del luogo di culto a Wonju, nella provincia di Gangwon, la cosparse di benzina e accese un fuoco. Le fiamme si sono propagate all’istante. Morirono 15 persone, 25 rimasero ferite, una delle vittime aveva solo 13 anni. L’articolo 78 della legge penale della Corea del Sud stabilisce che il periodo di prescrizione della pena capitale termina se la pena non viene eseguita entro 30 anni dalla pronuncia della sentenza. Won è stato condannato dalla Corte Suprema nel novembre 1993. Per trent’anni non ha mai dimenticato che sarebbe potuto arrivare il momento del raccolto di ciò che aveva seminato. “Sarà oggi? Sarà domani? Sarà l’anno prossimo?”, ha pensato e sentito ogni giorno, per trent’anni.
I termini di prescrizione scadono fra pochi mesi. Ma cosa scade dopo 30 anni? Il tempo limite per l’esecuzione capitale o anche quello della detenzione? A novembre, qualcuno dovrà decidere se il condannato a morte più longevo dello Stato può tornare a vivere tra i vivi o restare tra quelli che son sospesi sul ciglio della fossa dei morti viventi. Le opinioni dei giuristi sono contrastanti. Alcuni sostengono che una persona incarcerata nel braccio della morte dovrebbe essere rilasciata allo scadere del limite di 30 anni. Altri affermano che il prigioniero dovrebbe rimanere in detenzione perché il tempo trascorso in attesa dell’esecuzione non conta ai fini della prescrizione. A seconda di come viene interpretata la legge, la vita di Won può cambiare dal giorno alla notte.
Tra il riportarlo alla vita tra i vivi fuori dal carcere e il destinarlo alla morte nel cimitero dei vivi, il governo coreano ha preso posizione. Dopo lo scandalo di 23 prigionieri impiccati in un solo giorno, il 30 dicembre 1997, la Corea del Sud ha “quasi” abolito la pena di morte, ma pare non voglia abolire la pena fino alla morte. Il 5 giugno scorso, il governo ha approvato un disegno di legge che elimina la prescrizione per le condanne a morte. Il provvedimento, una volta in vigore, sarà applicato anche retroattivamente. Probabilmente, la tregua di fatto delle esecuzioni non sarà violata, e Won e gli altri 58 prigionieri del braccio non saranno impiccati. Ma sulla loro divisa rimarrà affissa la targhetta rossa, il marchio d’infamia dei condannati a morte.
Won è un detenuto modello che non è mai stato mandato nel “buco” per aver litigato con i suoi compagni di reclusione o aver causato problemi. Negli ultimi quattro anni, ha inviato 34 lettere al Professor Lee Deok-in che studia la pena di morte. Ha espresso rammarico per le azioni passate e il timore che la sua condanna venga eseguita. La paura quotidiana della morte ha assunto anche la forma fisica di un cancro al fegato. È finito nel braccio della morte per aver bruciato un luogo di culto e ora è un fervente protestante. La conversione è avvenuta grazie a un membro della chiesa che dopo la condanna a morte gli ha fatto visita e regalato la Bibbia.
Da sopravvissuto alla pena di morte e alla sua appendice tumorale, Won si sveglia ogni giorno alle 4 del mattino per leggere il sacro libro e pregare per le vittime e le loro famiglie. In una lettera, Won ha scritto che essere nel braccio della morte ed essere imprigionato a vita sono due cose molto diverse, come il cielo e la terra, la vita e la morte. Mentre i condannati a morte vivono ogni giorno con un piede sulla soglia della forca, i detenuti a vita possono sperare un giorno di tornare al mondo. A questo puntano gli abolizionisti coreani: a una politica di “ergastolo relativo” come alternativa alla pena capitale, che offra l’opportunità della libertà condizionale.
Il dono della grazia può cambiare il modo di pensare, di sentire e di agire di un prigioniero. “Non ho il diritto di esigerlo”, ha scritto Won in una lettera. Ma è certo che se gli fosse data la possibilità, vivrebbe il resto della vita donandola al prossimo, cercando di riparare l’irreparabile. Versando lacrime di rimpianto per il danno arrecato e cercando di rimediare nell’unico modo umanamente possibile. Come nel kintsugi, l’arte giapponese della riparazione con l’oro: quel che si è rotto non può essere riparato e tornare alla sua forma originaria, ma può ritornare a essere bello, rivivere in una forma diversa e anche più preziosa.