Il ricordo
Guido Bodrato, l’ultimo della “banda dei quattro” che portò la Dc nella modernità
È morto a novant’anni, l’ultimo superstite della “banda dei quattro” che negli anni Settanta portò la Dc nella modernità
Editoriali - di Piero Sansonetti
Aveva compiuto novant’anni a marzo. E un mese dopo il compleanno aveva perduto Irma, sua moglie da tanti decenni. Lui è morto ieri notte. Se oggi scendi giù in strada e chiedi: “chi era Bodrato?” nove su dieci, o forse tutti e dieci, ti rispondono: boh. Peccato che la memoria corra via così veloce. Bodrato negli anni Sessanta, Settanta, e Ottanta è stato un personaggio importantissimo nella politica italiana.
Per una ragione abbastanza semplice: aveva grandi doti tattiche e di tecnica politica e parlamentare, come molti suoi colleghi del tempo, e univa a queste doti una cultura ben vasta e – soprattutto – un pensiero. Un pensiero forte e stabile. Un po’ cattolico e un po’ socialista. Era un uomo di sinistra. Però era democristiano. La sinistra democristiana è sempre stato un animale speciale. Spesso molto avanzata, quasi spericolata nei movimenti dentro gli schieramenti del Parlamento, ma poi, altrettanto spesso, pronta a rientrare nei ranghi e a muoversi come i gamberi. Oggi, se dico democristiano di sinistra, uno pensa a Moro o a De Mita. Tutti e due formidabili uomini di potere.
Forse ineguagliabili su questo piano. Il primo però era un grande statista ma un inguaribile conservatore, e anche quando chiacchierava col Pci pensava a come imbrigliarlo. Il secondo era convinto che con l’assistenzialismo e il clientelismo la Dc potesse sia assicurarsi il consenso sia determinare una certa avanzata sociale delle persone più povere, e che tutto il resto fosse manovra. Bodrato era un personaggio parecchio diverso. Nel suo corredo politico c’erano due elementi che non sempre convivono: una fortissima carica etica e una formidabile capacità di pensiero.
Era un borghese del Piemonte. Era nato nel 1933 in un paese che si chiama Monteu Roero ed è in provincia di Cuneo. Non proprio una metropoli. Si era laureato in legge (allora si diceva così; oggi si dice: giurisprudenza) e da ragazzino, negli anni Cinquanta, si era gettato nella politica. Prima fu allievo di Carlo Donat Cattin, poi ne divenne il braccio destro, insieme a Calogero Mannino, se non ricordo male. E Donat Cattin aveva fondato una corrente che si chiamava “Forze Nuove”, ed era di gran lunga la più di sinistra tra le correnti democristiane: era corsa in avanti, senza briglie, a metà degli anni Sessanta, sulla spinta di Giovanni XXIII, e poi del Concilio, e poi della “Populorum progressio” di Paolo VI, e strada facendo aveva incontrato la riscossa operaia e il ‘68. “Forze Nuove” aveva anche un settimanale, molto importante e moderno, che si chiamava “Settegiorni”, se non mi sbaglio la dirigevano Ruggero Orfei e Piero Pratesi, e quel settimanale era un vero e proprio laboratorio di politica e andava molto oltre i confini della Dc.
Donat Cattin nel 1969 successe al socialista Giacomo Brodolini al ministero del Lavoro. Perché Brodolini, socialista, morì mentre stava lavorando allo Statuto dei lavoratori. Donat Cattin era un tipo strano, un ribelle. Nel 1964 addirittura era stato sospeso per un anno dal partito perché si era rifiutato di votare la candidatura di Giovanni Leone alla Presidenza della repubblica (poi fu eletto Saragat). Da ministro del lavoro proseguì alla grande il lavoro di Brodolini, condusse in porto lo Statuto dei lavoratori e guidò con saggezza la borghesia italiana a digerire l’autunno caldo del ‘69. In realtà Donat Cattin era un anarchico. Lo chiamavano così: Bakunin. A dargli saggezza e prudenza forse era proprio il ragazzino, Bodrato, che nel ‘68 aveva appena 35 anni.
Poi l’anarchico, da anarchico vero, cambiò le sue posizioni all’interno della balena democristiana. Negli anni 80 si spostò verso Andreotti e Forlani, probabilmente solo per odio verso De Mita che aveva conquistato e sottomesso il partito. Bodrato non lo seguì. Fondò una sua piccola corrente (mi pare che si chiamasse Nuove Forze) e si avvicinò ai basisti. Ma tra gli anni Sessanta e gli Ottanta ci fu un periodo importantissimo, circa un quinquennio, che fu il periodo di gloria vera di Bodrato. Lo zaccagninismo. Successe quando Moro, dopo che Fanfani aveva perso nel 1974 il referendum sul divorzio, lo rovesciò, conquistò il partito e mise alla testa del partito il placido Benigno Zaccagnini. Persona di grande storia e formidabile tempra morale. Ma un politico non di primissimo piano.
Moro gli mise vicino un gruppetto di cinquantenni dal cervello fino. Giovanni Galloni (che era calvo e veniva chiamato scherzosamente la testa più lucida della Dc), Luigi Granelli, ex operaio milanese, Corrado Belci, istriano, e lui: Guido Bodrato. Era il più giovane, aveva 5 o 6 anni meno degli altri tre. I giornalisti, perfidi (Paolo Franchi e altri impertinenti come lui…) la battezzarono la “banda dei quattro”, riferendosi ai quattro cinesi ex maoisti che dopo la morte del “Grande Timoniere” erano stati silurati e incarcerati da Deng Tziao Ping (la banda dei quattro era guidata dalla moglie di Mao). Furono anni di ferocia vera, quelli della banda dei quattro. Il 1978 è un anno di grande violenza ed è anche l’anno spartiacque nella storia della Repubblica. In marzo fu rapito Moro e la Dc sbandò.
Tra maggio e novembre fu varato il più poderoso pacchetto di riforme di tutta la storia d’Italia, con il voto del Pci (Sanità, psichiatria, casa, patti agrari, aborto…). Bodrato in tutta quella fase politica, fu uno dei pilastri che impedì al suo partito di collassare, guidò il dialogo fitto fitto col Pci, e tenne aperte le porte alla più impetuosa spinta riformista di tutta la storia d’Italia. Poi vengono gli anni Ottanta e le cose si complicano. Zaccagnini aveva perso la sua battaglia, aveva vinto Forlani. Andreotti per un po’ era restato fedele alla sinistra che lo aveva portato a guidare i governi di unità nazionale, poi era tornato a destra.
De Mita tentò – e poi la concluse con successo – la sua corsa personale verso il potere. Bodrato restò fermo sulle sue posizioni. E tentò di diventare protagonista assoluto nel 1984, quando il governo Craxi impose per decreto un taglio di 4 punti alla scala mobile, cioè al meccanismo che aumentava automaticamente e per legge i salari in modo proporzionale alla inflazione. Il Pci insorse. I sindacati si divisero: Cisl e Uil col governo, Cgil con il Pci e contro il decreto. Il Pci organizzò un clamoroso ostruzionismo alla Camera e al Senato e riuscì a far decadere il decreto. Il governo, prima che decadesse, si preparava a vararne uno nuovo, quasi fotocopia.
Bodrato intervenne, alla guida di un pezzetto della sinistra Dc, e tentò una mediazione. Cioè di modificare il decreto se non ricordo male portando a due i punti di scala mobile tagliati e rendendo il taglio solo transitorio. Però la mediazione non riuscì, il nuovo decreto fu varato, il Pci ricominciò l’ostruzionismo, le fabbriche si mobilitarono, alcune furono occupate. Il Pci fece sfilare a Roma un milione di persone (è di quel giorno la foto di Berlinguer che trovate in ultima pagina del nostro quotidiano) e l’Italia per diverse settimane restò in bilico. Venne la sorte a chiudere la questione, proprio quel 7 giugno.
Mentre teneva un comizio a Padova, Berlinguer si sentì male. Ictus. Morì pochi giorni dopo. Il Pci sospese l’ostruzionismo. Era sotto choc. Il decreto passò. Da quel giorno il potere di acquisto dei salari iniziò a scendere e non risalì più. Bodrato non rientrò più ai vertici della Dc, che era passata saldamente nelle mani delle correnti di destra. Ma continuò la sua battaglia. Restò deputato fino al ‘94, data di fine della prima Repubblica. Fu anche direttore del Popolo. La politica gli restò nell’anima sempre, fino a ieri notte quando è morto.