Il nuovo disco

Paul Simon, l’ultima preghiera prima della voce del silenzio

Giunto all’età di 81 anni, l’artista si interroga sul senso ultimo della vita. Ne viene fuori un lavoro delicato: 33 minuti, senza interruzioni, concepiti come un grande salmo ebraico

Cultura - di Graziella Balestrieri

4 Giugno 2023 alle 18:30

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Paul Simon, l’ultima preghiera prima della voce del silenzio

Un anno fa, compiuti 80 anni, ha venduto il suo catalogo con ben 400 canzoni alla Sony. Catalogo che comprendeva/e The Sound of silence, Bridge over trouble water, Mrs Robinson… Basterebbero solo questi titoli per avere una chiara idea sulla figura di Paul Simon, e su quanto la sua arte abbia inciso nel panorama musicale internazionale, segnando culturalmente un’intera generazione che tra il ‘67 e il ‘68 avrebbe cercato di smuovere un mondo per poi finirci completamente immerso anni e anni dopo.

In principio era l’amicizia d’infanzia tra Art Gurfunkel e Paul Simon, ben presto diventarono il duo più famoso nel mondo della musica. Merito in gran parte del “piccolo” Paul Simon, artefice della produzione artistica del duo, che però a detta del loro manager Joseph Rascoff, non solo i due non si sopportavano proprio, in più Paul allora non gradiva l’estetica e l’espressività che aveva sul palco Art Gurfunkel, che spesso prendeva la maggior parte degli applausi.

All’apice del successo e come accade nelle peggiori famiglie, il duo si separa: gelosie, soldi, spazi. Ufficialmente Simon&Gurfunkel smettono di esistere nel 1970, per poi comparire insieme nel 1981 per il concerto tenutosi al Central Park di New York. Si riuniranno ancora una volta e sarà l’ultima, a Roma nel 2004, davanti a un pubblico di 500mila persone. Ma spezzata la catena si spezza la magia, così Paul Simon riprende la sua carriera solista, sempre mantenendo quella forma di scrittura delicata, intellettualmente impegnata ed impegnativa.

Basti pensare che Leonard Cohen recitava (eh sì) The Sound Of Silence durante i suoi concerti per omaggiare quello che secondo lui aveva descritto in maniera che nessuno mai avrebbe saputo fare, le profondità oscure dell’anima e le risalite tormentate per ritrovare la luce. E di luce e oscurità è impregnato il nuovo album Seven Psalms, con un tema che accomuna tutti, perché alla fine tutti e nessuno escluso facciamo i conti con la morte.

Ma la morte è solennemente legata alla vita e c’è chi sceglie e decide (in vita) di presentarsi dinnanzi ad essa senza timore e senza la speranza di andare in un posto migliore. C’è invece chi la fede ce l’ha, la custodisce e ci combatte anche lottando costantemente con i propri demoni, cercando di redimersi, con la speranza che questa sia come una barca che servirà a traghettarci verso un viaggio sconosciuto ma sicuro.

Se la vita è vista in molti casi come una fatica costante, che almeno, per chi ha fede, che la morte sia “eterno riposo”. Già due anni fa lo stesso Paul si era ritrovato a dire senza giri di parole “non mi interessa più lo show business, sono quasi alla fine”. Ma se per molti quella frase stava ad indicare che non aveva più voglia di creare ed un ritiro imminente dalle scene, Seven Psalms invece è testimonianza che a 81 anni il suo percorso non era finito ma che aveva intrapreso un altro cammino, che si era messo in cammino verso qualcosa che sente, per ovvie ragioni anagrafiche, sempre più vicino.

Paul Simon con questo Seven Psalms sale su un altro palco e sa benissimo che la scena non è più la sua. Tutta questa ricerca, questa unica traccia che è un inno di disperazione e una richiesta di conforto, nasce da un sogno che Paul Simon racconta di aver fatto e che poi ha sviluppato e portato a termine ogni notte prima dell’alba, con disciplina, come fosse una sorta di rito religioso.

È pieno di domande e di dubbi, di accoglienza e reticenza allo stesso tempo per quello che lui definisce così: “il Signore è il mio ingegnere del suono, il Signore è il mio produttore, il Signore è la musica che sento / giù nella valle dell’inafferrabile”. Seven Psalms è una sorta di suite di 33 minuti senza interruzioni, che si apre e si chiude con il suono simile a quello delle campane, per scandire il tempo di inizio e della fine. Come una messa solenne. Suite di 33 minuti divisa in sette canzoni, sette canzoni che a loro volta ritornano su ritornelli ricorrenti e infatti una forma tipica della poesia dei salmi è la ripetizione del pensiero, per cui se una riga esprime un pensiero, la riga successiva ripete, modifica, amplia, corregge il pensiero appena espresso così come avviene nella cultura ebraica.

Ma tutto questo non è un caso. Innanzitutto, perché i salmi sono degli inni cantati e poi perché Paul Simon è ebreo, il padre e la madre sono ebrei di origine ungherese e nella cultura ebraica i salmi hanno un ruolo molto importante. Il salmo numero 7 poi contiene la parola shiggaion che deriva da un verbo che significa “vagare”; quindi, questo Seven Psalms lo si può anche intendere interpretare come quel vagare continuo che l’artista fa intorno alla fede. Così come l’intero libro di Abacuc è una poesia, e il capitolo finale (Abacuc 3.1) comprende un canto unico quindi una preghiera messa in musica. Entrambi i canti rappresentano quadri drammatici e la ricerca di conforto e di salvezza solo nella fede.

Abacuc 3 parla di terremoti, montagne crollate, pestilenze, inondazioni, frecce, lance e calamità; il Salmo numero 7 descrive leoni feroci, vite calpestate, rabbia, spade, frecce infuocate e violenza. Entrambi i canti terminano con lode nei confronti del Signore per essere liberi da queste distruzioni e dai tormenti. Così fa Paul Simon quando canta il Signore è “un pasto per i più poveri, una porta di benvenuto per lo straniero”, poi quando descrive le catastrofi del nostro tempo “Il virus Covid è il Signore/Il Signore è l’oceano che sale”.

E sullo sfondo i suoni: dalle chitarre, la sua in primo piano, e nei momenti finali dell’album, la voce di sua moglie, Edie Brickell, proprio a voler sottolineare quanto questo sia un viaggio, una ricerca, un modo per arrivare a quel momento ma in compagnia della persona amata. Ma questo Seven Psalms non è un testamento.  Gli artisti non lasciano testamenti, anche se più volte si è scritto così. Gli artisti lasciano la loro arte, lasciano in eredità quello che l’arte rappresenta per loro, in questo caso la musica. La musica come mezzo per arrivare da qualche parte, per attraversare, la musica che serve come ricerca della fede.

Questo fa Paul Simon in Seven Psalms: non fa altro che continuare un cammino intrapreso tanti anni fa, solo che all’età di 81 anni si rende conto che è tempo di dare del Tu alla morte, si rende conto di non essere più al centro della scena, si rende conto di non essere più lui il padrone del suo destino ma che quell’ingegnere che lui ricerca e teme in fin dei conti gli ha donato la musica, che gli ha permesso di attraversare sia gli inferi che la miseria dell’uomo ma gli ha anche spalancato le porte del paradiso e può stare certo che ad attenderlo ci sarà una delle barche più belle che lo porterà dall’altra parte (si spera il più tardi possibile).

4 Giugno 2023

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