Unità del 1° maggio 1989

La storia di Serena Cruz negli articoli di Natalia Ginzburg

Archivio Unità - di Paolo Persichetti

17 Maggio 2023 alle 10:50 - Ultimo agg. 26 Maggio 2023 alle 12:18

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La storia di Serena Cruz negli articoli di Natalia Ginzburg

Tra marzo e giugno del 1989 la vicenda della piccola Serena Cruz, adottata illegalmente dai coniugi Giubergia, scatenò le ragioni del cuore e quelle della legge. L’Italia si divise in due. Francesco Giubergia, ferroviere, aveva trovato Serena in un orfanotrofio di Manila. Presentatosi in ambasciata la riconobbe come sua figlia naturale, iscrivendola anche nel proprio passaporto. Il 13 gennaio del 1988 rientrò in Italia dove l’aspettava la moglie Rosanna e il primo figlio, adottato anche lui.
Un anno dopo il tribunale dei minori convocò Giubergia per assicurarsi della paternità della bambina. Il ferroviere rifiutò di sottoporsi agli esami e i giudici decisero di allontanare Serena dalla sua famiglia adottiva affidandola ad un nuovo nucleo familiare. «Questa Corte – scrissero i giudici – si rende conto che togliere una bambina da una famiglia nella quale è inserita da un anno (e sulla positività di tale inserimento vi sono negli atti riscontri autorevoli di medici e psicologi) costituisce un trauma assai grave. Ma ci sono esigenze di rispetto della legge che sono imposte dalla tutela di interessi pubblici assolutamente preminenti e che il giudice deve, sia pure con sofferenza, garantire».
Intervennero giuristi, intellettuali, scrittori. Norberto Bobbio e Natalia Ginzburg si «fronteggiarono» più volte, editoriale dopo editoriale, l’uno difendendo le sentenze del tribunale, l’altra sostenendo le ragioni della famiglia. Piovvero telegrammi sul tavolo del ministro di Grazia e giustizia, Giuliano Vassalli, su quello del presidente della Repubblica, Francesco Cossiga: si creò un comitato di solidarietà che raccoglieva adesioni in tutta Italia. Se da una parte c’era chi difendeva a spada tratta i Giubergia, sperando nella «clemenza della corte», dall’altra molti esperti diedero ragione al magistrati mettendo in evidenza i rischi di adozioni internazionali illegittime. Divenuta grande, Serena, che nel frattempo era diventata Camilla, scoprì la sua storia. Volle ritornare ad essere Serena Cruz e riallacciare i rapporti con i suoi primi genitori adottivi.

Questo articolo di Natalia Ginzburg* è apparso sull’Unità del 1° maggio 1989.

Per due volte ho scritto sulla vicenda di Serena Cruz, su due giornali diversi e tutte due le volte mi sono arrivate lettere di severa e aspra disapprovazione. Mi è accaduto anche di parlare di questa vicenda con persone che stimo per esempio con Angela Migliasso, che è piemontese e che sa tutto sulle adozioni. Nessuna era d’accordo con me. La legge è legge, mi è stato detto, ripetuto e scritto. I giudici di Torino hanno agito bene, non potevano agire diversamente. Io però non ho cambiato idea.
Credo che su questo non potrei cambiare idea finché vivo. Più che mai penso che la legge sulle adozioni è fatta male e che inoltre i giudici di Torino l’hanno letta con occhi distorti. L’hanno interpretata e attuata così da fare del male a tutti. Alla bambina, soprattutto alla bambina, al fratello: dunque a due bambini innocenti, inermi, senza scelta e del tutto ignari. E anche ai due sventurati genitori adottivi, colpevoli senza dubbio per aver frodato la legge. Colpevoli ma sventurati, colpevoli per inettitudine, per insipienza, per fretta. Non per motivazioni ignobili, colpevoli per aver voluto dare in fretta una casa, una famiglia a una bambina che non aveva niente che veniva su in condizioni drammatiche, in uno stato di assoluto abbandono. Ancora un poco e probabilmente sarebbe morta.
Colpevoli, i due Giubergia per averla in fretta voluta salvare.
Colpevoli, comunque, certo. Puniteli, scrivevo in quei due articoli, processate il padre, incarceratelo, però quella bambina innocente lasciatela in pace. Non la toccate. Lasciatela stare dov’è: evidentemente in quella casa di Racconigi stava bene, la amavano. Per lei si è mossa l’intera popolazione di Racconigi, a testimoniare che stava bene e a scongiurare che non la toccassero. Esisteva un nucleo familiare felice, illegale ma felice, e i giudici di Torino vi si sono calati come falchi e l’hanno distrutto. Non è così forse? Incarcerate il padre, dicevo io.
Perché non lo incarcerate se ha commesso un errore? La stessa cosa diceva Nilde Iotti, una voce ben più alta, più forte, più autorevole della mia.
Su questo punto non mi risulta che abbia risposto nessuno.
Nei giornali ho letto che a Napoli, in un caso analogo o anzi credo identico, i giudici hanno agito nel modo contrario: il bambino l’hanno lasciato con i genitori illegali. Hanno rispettato il fatto che esisteva un nucleo familiare da un tempo abbastanza lungo, e hanno messo sui piatti della bilancia l’illegalità e il benessere del bambino. Hanno dato la suprema importanza al benessere del bambino. Non è così che bisogna sempre fare secondo la legge? E non è sempre la stessa legge quella a cui si sono riferiti i giudici di Napoli e quella a cui si sono riferiti i giudici di Torino?

[…]

I Giubergia sono due persone di condizione modesta. Tutt’e due lavorano: lui è ferroviere e lei è un’infermiera. Hanno voluto però adottare due bambini. Per questi due bambini hanno prodigato soldi, tempo, sonno, fatica. Hanno cercato di farli star bene, hanno dato loro amore e dedizione. È egoismo questo? I Giubergia io non li conosco, non li ho mai visti nemmeno in televisione. Tuttavia desidero esprimergli da queste pagine la mia viva solidarietà e la mia pietà. Gli è toccata un’immensa sventura. È tremendo vedersi portar via di casa un bambino e loro sono stati trattati come peggio non si poteva trattarli. Gli era stato promesso che avrebbero potuto rivedere la bambina quando l’avessero voluto, ma questa promessa è stata subito cancellata, gli è stato comunicato che non la rivedranno mai più. Ai giudici è consentito mancare alle promesse, però non mi leva nessuno dalla testa che aver mancato a una promessa di questa specie sia stata una cosa brutta e immorale.
Ai giudici è anche consentito, a quanto sembra, agire nella clandestinità. Dal giorno in cui Serena Cruz è stata portata via dalla casa dei Giubergia, tutto quanto la riguardava è stato avvolto nella segretezza. Per forza, dicono, la gente intorno a questa vicenda ha fatto troppo rumore, il rumore è malefico. Dalla bambina dai nuovi genitori a cui è stata affidata sarebbero subito accorse folle di curiosi e di giornalisti. Lo capisco, è vero, e tuttavia in questa segretezza c’è qualcosa che genera turbamento. Vorremmo un poco di chiarezza, qualcosa che si avvicinasse alla trasparenza. Vorremmo qualcosa che suonasse diverso da quelle frasi che ci vengono offerte, così sbrigative, così fredde e così trionfali. Serena Cruz sta benissimo, si è inserita perfettamente nella sua famiglia nuova. Sono frasi che ci sembrano pronunciate da qualcuno che ha una gran fretta di andarsene, di chiudersi quella porta dietro le spalle.

[…]

Mi rendo conto che non si dovrebbero giudicare i giudici. I giudici sono là per giudicare e non per essere giudicati. Eppure molte volte riesce impossibile non giudicarli. Riesce impossibile non pensare che tanti di loro si comportano come se avessero totalmente in mano il destino della gente comune, come se fossero dei semi-dei. Riguardo alla giustizia, il discorso è immenso, lungo, sterminato, Quel che è certo è che l’idea di giustizia, che ognuno di noi porta dentro di sé, viene continuamente offesa, calpestata e tradita. Viene tradita anche quando ci viene spiegato che si sta cercando di tutelarla. Lasciando Serena là dov’era, presso i genitori illegali, si sarebbe messo in gioco il destino di quei milioni di bambini che vengono adottati illegalmente. Sì, ma per quei milioni di bambini, ideati nell’astratto, senza faccia e senza nome, è stata sacrificata Serena, una bambina che ha una faccia e un nome. È giusto? Io non lo trovo giusto. Intanto voi risparmiatela, ovvero non la toccate, e immediatamente dopo vi occuperete di tutti quei bambini senza faccia.

[…]

Per tornare ancora a Serena Cruz, io sento di appartenere a quella Italia che i giornali hanno chiamato l’Italia del cuore e delle lagrime, con disprezzo e irrisione. A quella Italia che vuole ignorare la sana implacabilità delle leggi e si lascia travolgere dalle emozioni. Vorrei però che mi si dicesse cosa c’è di così vile, di così ridicolo e spregevole, nel cuore e nelle lacrime. Vorrei sapere se le leggi, che sono state pensate e scritte non da semi-dei ma da uomini, non possano essere lette e applicate con cuore e lagrime, e con mille dubbi e tremori e emozioni. Vorrei che mi si dicesse se invece dell’Italia del cuore e delle lagrime è meglio preferire un’altra Italia senza cuore e con il ciglio asciutto. Una Italia di vegetali, di pezzi di ferro e pezzi di ghiaccio.

*Natalia Ginzburg (Palermo 14 luglio 1916, Roma, 8 ottobre 1991). Suo padre era uno scienziato triestino e si chiamava Giuseppe Levi. Fu un oppositore del fascismo e finì in prigione. Suo marito era Leone Ginzburg, letterato italo-russo che partecipò alla resistenza romana, fu torturato a via Tasso e morì in seguito alle ferite.

17 Maggio 2023

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