Qualche tempo fa mio figlio mi ha chiesto quale fosse una frase inequivocabilmente di destra. Gli ho risposto: “Prima gli italiani”. Una frase che nega tutto l’universalismo della nostra tradizione illuministica e cristiana. Bene ha fatto Donatella Di Cesare, in Tecnofascismo (Einaudi) a definire come essenza del totalitarismo odierno la etnocrazia, un esercizio familistico del potere, una “gestione dei popoli intesi come iperfamiglie” che a sua volta si sostiene su una tecnocrazia formata da capitale finanziario e industria militare.
Cos’è l’etnocrazia?
È il mito della autoctonia, di un popolo inteso come comunità naturale chiusa, cementata da criteri di consanguineità, entro un mondo ostile: l’ethnos, fondato sulla discendenza e sulla gerarchia, si sostituisce al demos, che è una comunità aperta, non definita, costituita da uguali. Eppure un prezioso anticorpo contro questa ossessione etnico-familistica si trova già nei Promessi sposi, considerati a torto da qualcuno un romanzo conservatore: nella scena del lazzaretto, dove ci sono capre che allattano bambini e madri che danno da mangiare ai figli non propri: una benevolenza, un affratellamento ben oltre i confini della famiglia. Davvero l’idea che una comunità sia retta da una discendenza genetica – che appare sempre più artificiosa – e non dalla partecipazione di cittadini che esercitano i loro diritti è la mitologia perversa della destra di oggi. Pensiamo a Trump e alla sua ossessione per l’autoctonia: è la cosa più contraria alle radici stesse dell’America che si potrebbe immaginare! L’America nasce come “paese di bastardi”(Pavese, nella Luna e i falò), proprio lì la cittadinanza non è legata a sangue e suolo ma al consenso a un sistema di regole e di valori. Come l’editto di Caracalla che nel 212 a.C. concedeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero, estinguendo la distinzione tra cittadini e “peregrini” (certo, anche perché divenissero contribuenti e incrementassero le entrate fiscali, ma nella Storia interessi e conquiste di civiltà spesso procedono insieme)
Il saggio di Di Cesare, che si spinge nel cuore di tenebra del postfascismo e del nazionalismo autoritario, affronta vari temi: il Security State che dovrebbe proteggere (illusoriamente) una vita “scandita dall’allarme”; le politiche immunitarie per combattere la migrazione sentita come minaccia (dove la “salvezza” non è mescolarsi a tutti gli altri ma il distanziamento paranoico, la fobia del contatto e della contaminazione); il legame tra razzismo attuale e xenofobia, e intolleranza per il diverso; l’odio antimusulmano e la specularità di islamisti e postfascisti uniti dall’odio e dall’ossessione per l’identità; la diffidenza per il potere agli esperti anche se i cittadini hanno il dovere di informarsi e documentarsi su quanto deliberano; l’ambivalenza della vittima (essere vittime dà in sé prestigio, promette riconoscimento e innocenza); la necessità per qualsiasi politica dei diritti di rendere anzitutto “visibile” il migrante, la cui vita scorre nell’ombra (anche parlare di lotta all’immigrazione clandestina è ambiguo perché tratta il migrante come un pregiudicato; l’impossibilità di ridurre la giustizia ai confini di una nazione sola)… Colpisce in particolare il legame, qui sottolineato, tra paradigma immunitario e freddezza imperturbabile che ostentiamo di fronte al dolore degli altri, tra democrazia e anestesia emotiva: “Come si può essere spettatori impassibili di ingiustizie terribili, crimini feroci, senza provare angoscia”? Viene in mente Dante che nel Purgatorio di fronte alla massa cenciosa degli invidiosi, divenuti ciechi per il contrappasso, prende una decisione sorprendente: dato che loro non possono vederlo allora abbassa lo sguardo, per ristabilire una qualche condizione paritaria. Forse quando all’ora di cena vediamo in TV gli orrori delle guerre in corso dovremmo anche noi abbassare lo sguardo.
In qualche capitolo la disamina della patologia della democrazia ha una ricaduta nella geopolitica attuale: guerra di aggressione della Russia all’Ucraina e “smisurata”, criminale risposta di Israele all’attacco di Hamas (paradossalmente il popolo ebraico, da sempre “straniero”, e che ha scritto una Dichiarazione di indipendenza fondata sul pluralismo, oggi sembra aderire a un primato etnico!). Ma rimando ad altre occasioni una discussione sull’attualità. Solo registro un lieve dissenso personale sui nemici attuali della democrazia: mi ostino a pensare che siano più temibili quelli esterni, i regimi autocratici aggressivi (Putin mi fa più paura di Orban, e di Giorgia Meloni!). Piuttosto concentriamoci sul cuore della sua intera riflessione etico-politica: l’idea di libertà, che non è solo assenza di vincoli, e dunque potenzialmente arbitrio, autarchia di un io sovrano e pieno di sé ma anzitutto responsabilità (gli autori di riferimento sono Jonas, Arendt, Levinas) : “Io non sono il primo, non vengo per primo…devo la mia esistenza a chi mi ha messo al mondo”, e anzi “l’altro è presente in me molto più di quanto voglia ammettere”.
Alla libertà basata sull’avere e sulla proprietà occorre sostituire la libertà di un sé vulnerabile, che tutti abbiamo in comune. Il merito di queste pagine consiste nel ricordarci che la democrazia non consiste tanto e solo in regole e procedure quanto nell’idea che uno matura di se stesso, nel modo in cui percepisce la propria identità. Se questa infatti coincide con un luogo, uno spazio eletto di cui ci si è appropriati, una famiglia di consanguinei (che esclude tutti gli altri), con il possesso di certi beni materiali, etc. allora si resta dentro l’angustia dell’ethnos, della nazione. Se invece si identifica con un coabitare, con il semplice esistere insieme agli altri, con la condivisione e la relazione, allora si torna alla polis e alla democrazia. In fondo, il peccato più grave del fascismo, nelle sue molteplici versioni (populiste, tecnocratiche, etc.) è quello di muoversi nella irrealtà: rimuove infatti la vulnerabilità e finitezza degli esseri umani (unico destino comune), la “infermità” originaria che caratterizza la condizione umana, inventando una sicurezza del tutto ingannevole. Ripensiamo al Purgatorio di Dante. Quando sbarcano sulla spiaggia (da un barcone) un gruppo di anime di espianti – momentaneamente smarriti – chiedono a Virgilio qual è la via, ma lui risponde che non lo sa: “Noi siam peregrin come voi siete”.