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Intervista a Gianni Cervetti: “Quando uccisero Eugenio Curiel sono diventato comunista”

Photo credits: Carlo Carino/Imagoeconomica
GIANNI CERVETTI PCI

Photo credits: Carlo Carino/Imagoeconomica GIANNI CERVETTI PCI

Gianni Cervetti è l’ultimo dirigente ancora in vita del Partito Comunista Italiano, già deputato ed uno dei massimi esponenti del partito, che ha vissuto tutto, da Togliatti a Berlinguer. Da Kruscev a Gorbačëv, ha visto tutti, stretto mani e firmato accordi, e ha deciso di tagliare i ponti (e i fondi) con l’ex Unione Sovietica. Ci racconta di quando andò a Mosca come studente universitario nel lontano 1954 per volontà del partito. E poi degli incontri, degli amici, dei viaggi, di Enrico Berlinguer del quale era l’uomo di fiducia, e poi dell’amore per sua moglie e compagna nonché segretaria de L’Unità. E ancora di quel 25 aprile del 1945 nel quale Cervetti, allora dodicenne, passò dalla preoccupazione alla gioia dopo la Liberazione dal nazifascismo.

Come ricorda gli anni prima della Liberazione?
Ero un ragazzetto! Nel 1945 avevo 12 anni, quegli anni me li ricordo bene, ho visto ammazzare Eugenio Curiel, partigiano, capo del Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà, ma non solo lui. Io abitavo a Via Giovanni Rasoli a Milano, una via lunga 300 metri che sfocia in via Conciliazione. Mentre stavo giocando con altri ragazzini della mia età, come fanno tutti i ragazzini, fregandosene anche della guerra, vidi Eugenio Curiel che stava correndo lì, con l’intento di andare verso via Boccaccio. Fu colpito da gruppo di fascisti che lo avevano individuato, perché lui stava in un bar da dove partivano delle corriere per la provincia di Milano. Alla prima raffica di mitra rimase ancora in piedi, fece ancora sette o otto passi, poi all’ultima scarica cadde a terra. Vidi altri fascisti uccidere. Allora, durante la guerra, visto che non c’era legna da far funzionare nelle stufe, lì vicino c’era un giardinetto con degli alberi, che erano stati tutti tagliati. Ricordo che era rimasto ancora qualche albero, ed un uomo che lo stava tagliando per la legna fu avvicinato da un fascista che era assieme ad una ragazza. Il fascista si avvicinò, l’uomo che stava tagliando l’albero gli disse di andarsene via e il fascista gli sparò, lo colpì e lo ammazzò…

Cosa disse ai suoi genitori tornando a casa?
Raccontai con spavento quello che i miei occhi avevano visto. Mio padre era un simpatizzante socialista fin da quando stava in Piemonte, prima che venisse a Milano. Mia madre era una donna di casa che voleva educare i figli secondo le abitudini del tempo, come cattolici e come credenti. Mio fratello era allora nel Cil, il Corpo Italiano di Liberazione. Si trovò a Grottaglie nel 1942, dove stava facendo il corso allievi, e quella fu una zona subito occupata dagli inglesi e dagli americani. Lui risalì, poi quando venne a casa diede gli esami per laurearsi alla Bocconi in Economia e Commercio e infatti poi si laureò.

Il giorno della Liberazione se lo ricorda?
Sì, me lo ricordo bene. C’era ancora un’atmosfera di preoccupazione perché c’erano dei fascisti asserragliati all’angolo di via Boccaccio. Mi ricordo bene che passò da via Rasoli un partigiano che stava su una macchinetta, non so dove l’avesse presa, era una macchinetta con sopra una mitragliatrice e arrivò lì perché lì abitava uno della famiglia Mussolini e cominciò a sparare e distrusse mezza casa a forza di colpi di questo piccolo carro armato che era anche scoperto. Mi ricordo l’arrivo di un comandante che era su una camionetta, non credo fosse una Jeep ma era una camionetta e poi mi ricordo un gruppo di partigiani dell’Oltrepò-Pavese che arrivarono a Milano in quei giorni.

Lei entra giovanissimo nel Pci. Come mai questa scelta?
Io ero molto amico del figlio di Fernando Santi, che insieme a Giuseppe Di Vittorio era ai vertici della Cgil. Studiavamo assieme, facevamo la quinta ginnasio e poi abbiamo fatto assieme il liceo e quasi tutti i giorni stavo a casa sua. Sull’angolo di quella strada lì, in una via pressappoco adiacente, c’era una sezione del partito e decidemmo assieme di iscriverci. Non avevamo ancora 16 anni, arrivammo lì ed era come tutte le sezioni di allora, c’erano alcuni intellettuali, mi ricordo per esempio di Albe Steiner, il famoso disegnatore, che era molto amico di Pablo Neruda. Una sera tra l’altro lo portò in quella sezione e fu una sera di grande interesse per noi giovani che ci riunivamo attorno a Pablo Neruda e Albe Steiner. Fu una chiacchierata molto interessante per noi giovani sia in ambito politico che in ambito culturale.

Poi la mandano a Mosca a studiare all’università. Come mai?
Io studiavo Medicina qui a Milano, ero già al terzo anno. La federazione del Partito Comunista era allora in Piazza della Liberazione vicino al Cinema Anteo. In questa federazione io andavo praticamente quasi tutti i giorni. Un giorno sono arrivato lì e mi dissero che sarei dovuto salire all’ufficio quadri. Io andai perché pensavo che mi chiedessero di fare il praticantato presso l’Unità. Appena arrivai incontrai lì un signore che guardava fuori dalla finestra. Era un mese di autunno inoltrato. C’era un clima più piovigginoso di quei tipici mesi autunnali milanesi. L’uomo guardava fuori dalla finestra e mi disse di iniziare a raccontare la mia biografia. All’inizio non capii. Poi mi metto a raccontare quattro storielle sulla mia vita. Allora non lo conoscevo. Poi seppi che l’uomo alla finestra era Aldo Lampredi. Dopo un po’ che stavo parlando, mi dice “basta, devi andare a studiare all’estero”. Io risposi che stavo studiando qui a Milano e lui risponde: “Non si tratta di studiare medicina ma altro”. Ingenuamente pensai a qualcosa che avesse a che fare con la facoltà di agraria. E mi risposero che non si trattava né di medicina né di agraria ma di una materia imprecisata che si avvicinava all’economia e alla politica. Mi chiesero di preparare il passaporto, visto che non lo avevo ancora. Lo feci e dopo un mese o due me lo concessero valido solo per la Francia. A quel punto andai in Francia e poi da lì passai in Svizzera. Ero assieme a un mio amico, ma nessuno di noi sapeva che eravamo destinati ad andare a studiare per cinque anni a Mosca. Mi ricordo ancora il nome della via, in Svizzera, dove c’era una pensioncina che era collocata in via Wilhelmstrasse numero 5. Wilhelmstrasse numero 5, andammo li, dove c’era Matteo Secchia, il fratello del più noto Pietro Secchia. Da lì poi ci accompagnò a prendere un aereo. La Svizzera anche allora era un paese dove c’era tutto il via vai del mondo, o quantomeno dell’Europa. Da lì poi partimmo e a un certo punto ci ritroviamo a Praga e poi dopo da Praga andiamo a Mosca. A Mosca c’era in preparazione il ventesimo congresso, quello della destalinizzazione di Nikita Kruscev. Sull’aereo che da Praga ci portava a Mosca io mi sedetti vicino a un tipo di carnagione olivastra, che quando mi vide aprire la borsa nella quale avevo dentro una serie di giornali italiani tra cui l’Unita mi chiese di vedere proprio l’Unità e ricordo che quel giorno che l’avevo comprata io ancora in Italia, c’era un articolo di fondo di Luigi Longo. Questo signore, Dipa Nusantara Aidit che era il capo dei comunisti indonesiani che andava a Mosca al ventesimo congresso.

Quindi vi avevano messo un po’ tutti su questo aereo…
Ci avevano messo un po’ tutti su questo aereo. Mi ricordo ancora che facemmo scalo, mi pare a Kiev, e ci invitarono tutti a scendere e andare a cena in un ristorante dell’aeroporto. Noi ci guardammo, io e questo mio amico, Sandretti, ci guardiamo in faccia e diciamo di no anche perché non avevamo neanche una moneta del posto e rimanemmo stupidamente in aereo mentre tutti gli altri andarono a mangiare e tornarono che avevano un profumo di cucina addosso che ci fece invidia.

Mosca, prima impressione?
La prima impressione è legata all’arrivo all’aeroporto di Vnukovo, dove ci venne a prendere un signore piuttosto corpulento con i capelli bianchi. Noi andammo con lui fino a Mosca su un automobile e andammo all’università. Questo signore ci seguì ovunque per qualche giorno, ci accompagnò a comprare qualche paltò di quelli pesanti, era tra l’altro un inverno molto freddo, che raggiunse soltanto a Mosca i 25 gradi sotto zero. E poi lì incontrammo, io e questo mio amico Sandretti, l’altro gruppo di italiani, e tra questi italiani quella che poi sarebbe diventata mia moglie, che si chiamava Franca Canuti. Lei era già lì perché era stata scelta l’anno prima di noi, nel 1955 e noi siamo andati all’inizio del 1956. Gli italiani che allora studiavano a Mosca erano circa 25, io fui eletto subito capo gruppo di questi 25 italiani perché vollero eleggermi, un incarico che tenetti per 4 anni e mezzo e poi quando arrivò alla fine cedetti a Fausto Ibba, poi diventato un redattore de l’Unità.

Con la lingua come avete fatto?
Non parlavamo una parola di russo! Facevamo 5- 6 ore di lezione di russo al giorno – tra di noi c’era un vietnamita che poi diventò ministro della Sanità nel suo paese – con un insegnante di lingua russa che ovviamente non parlava una parola che non fosse russa. Questo andava bene perché ci aiutò a cominciare ad apprendere la lingua. Dopo cinque mesi facemmo un mese di vacanza nell’Unione Sovietica di allora e noi andammo a Kiev .

Ci racconta di sua moglie ?
Mi ricordo la prima volta che l’ho vista, l’ho vista immediatamente, lei conosceva già il mio amico Sandretti. Dopo qualche annetto ci siamo fidanzati e poi è nato nostro figlio. Nel 1960 abbiamo fatto un viaggio di 12 13 persone in Cina, otto giorni di treno ad andare, otto a tornare. Restammo 15 giorni in Cina, una Cina poverissima allora, dove le migliori case erano scavate come caverne. Ripeto, era un paese di una povertà estrema, dove la gente d’estate dormiva sulle stuoie fuori dalle case di città che erano tutte case costruite con il fango.

Prende la laurea e dopo?
Torno subito in Italia per decisione del partito. Mentre stavo finendo l’università era venuto a Mosca Aldo Bonaccini, segretario della Camera del lavoro di Milano, con il quale ebbi modo di parlare del mio futuro. Quando tornai in Italia andai in federazione, che era sempre in piazza 25 aprile e incontrai sulle scale una persona che io conoscevo già, Giuseppe Carrà. Io stavo lì perché dovevo parlare con Cossutta, che era allora segretario della federazione di Milano. Carrà mi chiede cosa ero venuto a fare, e io gli rispondo che devo parlare con Cossutta, per avere proposte di lavoro. Lui si mette a ridere, all’inizio non vuole dirmi il perché e poi dopo, sotto mia insistenza mi dice che proprio nella mattinata avevano discusso di questo mio colloquio con Cossutta e che Cossutta aveva deciso di farmi delle proposte che mi allontanassero dalla federazione, perché provenivo da Mosca… vede come va il mondo? Proprio lui…

Quando conosce Berlinguer?
Berlinguer è entrato nella mia vita quando era ancora segretario della Federazione dei giovani comunisti, credo fosse il 1952. Facemmo un viaggio – noi del gruppo dei milanesi – insieme a lui, nella zona del territorio libero di Trieste, dove c’erano minoranze slave, e fu quello il primo incontro. Poi l’ho rivisto proprio nel 1954 ed Enrico voleva affidarmi l’organizzazione del congresso della federazione giovanile comunista che si teneva a Milano proprio l’anno successivo. Mi fece la proposta proprio in questo cinema Anteo, ma mentre Berlinguer mi fece questa proposta Casadei gli disse che non era possibile perché ero destinato a studiare a Mosca.

Diventa l’uomo di fiducia di Berlinguer nei rapporti con Mosca…ed è sua la decisione di non ricevere più i finanziamenti dal Pcus e dall’Unione Sovietica…
La decisione, la prima volta l’abbiamo presa in tre. Ci siamo riuniti nel salone dell’anticamera della Camera dei Deputati perché pensavamo che ascoltassero le nostre conversazioni. Ci siamo riuniti lì: eravamo io, Berlinguer e Chiaromonte. Avevo visto i conti e allora c’era ancora il finanziamento pubblico e pensavamo di prenderlo. Poi avevamo aumentato la quota tessera dei nostri iscritti notevolmente. Quindi abbiamo preso questa decisione in quell’occasione, nel 1974. Poi ci è voluto un po’ di tempo per attuarla, accadde all’inizio del 1976. Io feci un viaggio a Mosca assieme a Maurizio Ferrara che era il padre di Giuliano. Ricordo ancora Margheri e c’erano altri due. Andammo a Mosca. Poi io da solo incontrai Boris Nikolaevič Ponomarëv che fino al 1986 diresse il Dipartimento per i rapporti con i partiti comunisti occidentali. Gli dissi che rinunciavamo al finanziamento che loro ci avevano dato, un finanziamento che durava dalla notte dei tempi. Ogni anno erano 5 o 6 milioni di dollari. E così avvenne la chiusura di quel rapporto. Questa cosa, quando presentai un mio libro presso la Camera dei Deputati, la confermò anche Cossiga. Disse che quando il nostro uomo che si chiamava Schiapparelli andava a cambiare questi dollari in lire alcuni dei servizi segreti entravano dal cambiavalute e si facevano dare alcuni di questi dollari per controllare che fossero effettivamente veri e che non fossero falsi, e poi si convinsero che erano veri e quindi credo che fossero collegati ai servizi americani come da testimonianza di Cossiga.

Al di là di Berlinguer, chi è stato lo statista fondamentale per il nostro paese?
Secondo me è stato Palmiro Togliatti, con la svolta di Salerno del 30 e 31 marzo del 1944, perché tutto è iniziato da lì, compreso il fatto della posizione dell’Italia che non si è mai allineata totalmente. Non dico che Togliatti abbia fatto tutto perfetto, si possono muovere anche a lui delle critiche, però la svolta di Salerno è stata decisiva per la collocazione dell’Italia, per la collocazione di frontiera dell’Italia.

Ha conosciuto anche Michail Gorbačëv, vero?
Gorbačëv l’ ho conosciuto bene. Mi trovavo a Mosca per un’altra visita presso il Comecon, allora ero capo del nostro gruppo al Parlamento Europeo e andai assieme al segretario di questo gruppo che si chiamava Angelo Oliva e una mattina mi telefonò il segretario di allora di Gorbačëv che si chiamava Aleksandrov Agentov, che era stato un diplomatico che aveva lavorato in Svezia prima durante gli anni precedenti alla guerra e poi durante la guerra del 39-45 e questo Aleksandrov Agentov mi chiese se volevo incontrare Gorbačëv e che mi avrebbe mandato a prendere con una macchina. Io gli dissi ovviamente di sì, anche perché questa pratica interrompeva una lunga storia secondo la quale i segretari del partito incontravano soltanto i segretari dei partiti di tutti gli altri paesi. Andai all’incontro nell’ufficio di Gorbačëv, c’era un segretario di Leningrado che si chiamava Romanov, questo Romanov rimase nell’ufficio di Gorbačëv, un quarto d’ora poi Gorbačëv uscì e mi invitò ad entrare nel suo ufficio. Io entrai e così parlammo a lungo perché come si sa Gorbačëv non era di poche parole.

Che impressione le fece?
Mi diede l’impressione di essere un uomo nuovo per gli standard sovietici e a un certo punto mi disse che da lì a 15 giorni avrebbe dovuto vedere Craxi e Andreotti, che erano allora non solo presidente e ministro degli Esteri italiani però andavano anche a Mosca come rappresentanti dell’allora comunità economica europea. In quanto tali lui Michail mi disse: “Cosa devo dirgli?”. Io ero imbarazzato e pensai a una frase che in russo suonava pressappoco così “Se la comunità economica europea si presenta a noi come un’entità politica noi siamo disposti a stabilire con questa comunità dei rapporti”. Questa frase poi lui la utilizzò davvero in una visita che fece in Francia all’Assemblea Nazionale e anche in qualche altra occasione. Quando tornai, Spinelli, che era allora membro del gruppo dei comunisti e apparentati al Parlamento europeo, mi chiese “Ma cosa sei andato a fare lì?”. Gli dissi cosa ero andato a fare perché avevo sentito che c’era qualche novità e Spinelli mi risponde “Ma quelli non cambiano mai…”.

Stiamo parlando di Altiero Spinelli del famoso “Manifesto di Ventotene” giusto?
Sì, proprio lui. Questa cosa ve la voglio raccontare: qualche anno prima che Spinelli fosse eletto parlamentare europeo stavamo concludendo la formazione delle liste per il Parlamento Italiano. A quel punto mi telefona Giorgio Amendola e mi dice “Ho sentito da Turani – Turani era allora il segretario di Spinelli che era membro della commissione europea – che se si proponesse a Spinelli di fare il candidato nelle nostre liste accetterebbe, gli avevano già fatto questa proposta i democristiani e i socialisti ma lui non l’aveva accettato”. Io mi diedi da fare immediatamente perché ho pensato che fosse una cosa più che importante e convocai il segretario della federazione di Milano che era allora Riccardo Terzi e poi telefonai anche a Petroselli che era segretario di Roma e gli dissi che dovevano mettere in lista Spinelli sia a Roma che a Milano, e così fu. Convocai anche un notaio e andammo assieme a Spinelli all’aeroporto, lui arrivava a Milano da Strasburgo o Bruxelles, credo Strasburgo e firmò questa dichiarazione di accettazione delle candidature.

Tornando al 25 aprile, che cosa significa essere antifascista oggi?
Il significato è chiaro e semplice: rifiutare in maniera assoluta ogni fascismo e ogni dittatura.

C’è un personaggio politico che le manca di più?
Sono tanti. Io sono rimasto l’unico della direzione e della segreteria del Partito comunista italiano che è sopravvissuto, l’unico che ha vissuto l’epoca di Palmiro Togliatti e poi di Luigi Longo, di Enrico Berlinguer. Sono una specie di ultimo dei Mohicani. Però se devo dirlo Berlinguer mi manca. Poi di quelli che non ho conosciuto me ne mancano tanti, ad esempio Antonio Gramsci, fondamentale nella storia del Pci, del nostro paese e non solo.

Ha mai conosciuto Giorgio Almirante?
L’ho conosciuto sì, e posso descriverglielo anche attraverso il ricordo di quando è venuto a rendere omaggio a Berlinguer. Ebbene, lui, malgrado il suo passato nella Repubblica sociale, il suo presente nel Msi, si distingueva da molti di questa attuale destra o centro-destra per il coraggio delle sue azioni, compresa quella di aver reso omaggio alla salma di Berlinguer. Io ero in quell’occasione lì nel lato di Botteghe Oscure dove c’era la camera ardente. Devo dire che quando è arrivato lui Pajetta era sceso per venirlo a ricevere e così fu. Perché si temeva che ci fosse qualcuno della folla che lo potesse fischiare. Questo non è accaduto e non è accaduto perché forse la gente capì che era un omaggio che da un avversario veniva fatto a Berlinguer.

Come vede il futuro del nostro paese?
Adesso lo vedo con occhio critico, perché c’è un governo che ha interrotto la tradizione, non solo la tradizione del Partito Comunista, ma la tradizione di tutte l’insieme delle forze democratiche e che mette in discussione anche alcuni fondamenti della Repubblica.