Quanti si avvicinano, cercano attenzioni, e dicono di essere campioni? Come no: tutti fenomeni. “Cerca una palestra”, aveva detto l’amico vicino a lui. “Vuole fare pugilato”, aveva aggiunto ancora quell’interprete improvvisato che tra l’altro non era nemmeno un amico suo ma soltanto un ragazzo italo-marocchino che si trovava lì e che parlava un po’ di arabo e lo aveva aiutato a farsi capire. “Dice che al Paese suo era campione”. E certo, come no, ci mancherebbe. Eccone un altro, uno poteva pensare tranquillamente anche in quel pomeriggio in piazza dei Signori.
Quello aveva visto la riunione di boxe all’aria aperta e aveva chiesto informazioni. E va bene, visto che insiste, passasse pure. Figurati. “Grazie, dice”. E prego. E però quello qualche giorno dopo era passato veramente in palestra. All’orario degli amatori, come gli avevano detto di fare. Non aveva nemmeno finito di riscaldarsi che lo avevano visto e gli avevano detto: “No, aspetta, meglio se ti alleni con gli agonisti tu”. E quello così aveva fatto, aveva aspettato gli agonisti. Anche quando si era messo al sacco lo avevano osservato, lo avevano fermato, gli avevano chiesto se gli andava di salire sul ring con qualcuno. “Hai voglia di muoverti un po’?”. E certo, un pugile sale sempre sul ring, è naturale. Prima uno, botte. Poi un altro, botte anche al secondo. E nessuno sapeva che Akrem Aouina non si allenava più o meno da un anno e mezzo quando era entrato nel quadrato quel pomeriggio.
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Alla fine lo avevano preso da parte e glielo avevano chiesto: ma tu, chi sei? Da dove sei uscito?”
Kabaria dell’anima mia
A Kabaria “o ti fai rispettare o ti mangiano vivo”. Sud di Tunisi, un quartiere popolare. “Funziona così nel ghetto, la violenza domina su tutto. Ero il primo di otto figli, ho tre fratelli e quattro sorelle: se non mi facevo rispettare io avrebbero mangiato anche tutti gli altri. È dura lì”. Due amici morti accoltellati, altri due amici in carcere accusati di omicidio. “All’inizio non mi interessava la boxe: volevo diventare uno che sa picchiare”. Voleva essere un duro. Papà operaio, mamma casalinga: se quella faccia distrutta e il naso devastato di zio Morad erano il prezzo per diventare pugile, non se ne parlava nemmeno. Se lo poteva scordare. “Anche mio padre aveva fatto pugilato ma non aveva mai combattuto incontri. I miei non volevano e allora io ci andavo di nascosto in palestra. Era lontana una mezz’oretta da casa mia, i bambini non pagavano. Ho provato la lotta greco-romana, non mi è piaciuta, troppo poco violenta. Altre arti marziali, neanche mi sono piaciute”. E alla fine è arrivata la boxe, il pugilato che era tutta un’altra cosa.
“Non so se si può parlare di uno stile arabo o tunisino, ma quando vivevo a Tunisi mi sono allenato con molti allenatori stranieri. Li facevano arrivare dall’estero, soprattutto dalla Russia ma anche dalla Romania e da Cuba. Sì, possiamo dire di avere molto in comune con lo stile sovietico, anche con quello cubano ma soprattutto con quello sovietico”. Più o meno un annetto dopo aver iniziato, i primi podi e le prime medaglie. “A quel punto ha cominciato a piacermi davvero, mi sono innamorato di questo sport. L’ho detto finalmente a casa e vedendo i risultati anche loro hanno cominciato a crederci”. Più volte campione tunisino, due volte la Coppa della Tunisia. Abbastanza per accedere al gruppo sportivo dell’esercito. “Non mi hanno mai insegnato nemmeno a montare e smontare un’arma, a sparare. Ero uno sportivo a tutti gli effetti, quello che volevo essere. Volevo andare alle Olimpiadi e poi fare la carriera professionista. Avevo il sogno di diventare campione del mondo. Un’ossessione, non la so spiegare”. Il nome Akrem in arabo vuol dire: il più nobile, il più generoso.
Maledetta Primavera Araba
A Sidi Bouzid non si trovava lavoro. Mohamed Bouazizi era stato respinto dall’esercito ed era diventato venditore ambulante di frutta e verdura. Così si guadagnava da vivere e così manteneva la famiglia fino a quando non denunciò maltrattamenti e umiliazioni da parte della polizia, degli agenti che gli avevano sequestrato la merce. Con una lattina di benzina e un fiammifero, il 17 dicembre 2010, si fermò nel traffico sotto l’ufficio del governatore. “Come credi che io possa guadagnarmi da vivere?”. E così si diede fuoco. E così esplose in Tunisia la Rivoluzione dei Gelsomini, un movimento che si allargò oltre i confini e che divenne noto in tutto il mondo come Primavera Araba, un’ondata di proteste che mise in discussione la tenuta di regimi e governi più o meno illiberali o autoritari nei Paesi arabi.
“All’epoca non si capiva bene la situazione, quello che è sicuro è che è sfuggita di mano, sono arrivati i terroristi, è diventata un caos ed è durata anni. Hanno cominciato ad ammazzare anche i civili, ho visto gente uccisa davanti ai miei occhi, una volta anche con un mitra da un elicottero: sembrava un terremoto, sono scene che vedi nei film. Non lo dimenticherò mai, mi è rimasto impresso nella mente”. Zine El Abidine Ben Alì era al potere a Tunisi dal 1987, in poche settimane il caos innescato da quelle proteste lo portò a fuggire con tutta la sua famiglia in Arabia Saudita. Hosni Mubarak venne deposto in Egitto, Muammar Gheddafi ucciso in strada in Libia, Ali Abd Allah Saleh lasciò la presidenza in Yemen.
“A parte la violenza, per me la situazione era frustrante anche sportivamente: dovevamo andare a combattere all’estero ma il Paese era zona rossa e quindi non potevamo viaggiare. Non potevo neanche andare in palestra ad allenarmi. Questa cosa mi ha distrutto mentalmente. Quando i terroristi hanno assaltato la mia caserma e attaccato il museo del Bardo che si trovava lì vicino (25 morti, tra cui molti turisti, operazione rivendicata dal sedicente Stato Islamico, ndr), ho pensato: affanculo, questo è troppo, me ne vado. Non si più campare così, mi sono congedato e mi sono imbarcato alla prima occasione”.
Pochi o nessun controllo sulle coste, saltati gli accordi bilaterali con l’Italia, qualche migliaio di euro per imbarcarsi: i giornali di quegli anni titolavano sugli sbarchi da record. Secondo i dati del ministero dell’Interno, nel 2016 sono arrivate sulle coste italiane 181.436 persone migranti, circa il 18% in più dell’anno precedente, il 6% in più del 2014. Secondo Open Migration il 5,5% di queste dalla Tunisia. Akrem Aouina è partito da solo, è salito su un motoscafo con una ventina di persone, è sbarcato a Marsala ad agosto. “Sognavo di venire in Europa, prima o poi. Non così però. C’erano onde alte quanto palazzi in mare aperto, uomini e donne vicino a me che piangevano. Non è stato facile ma l’avevo scelto io. Se sono quello che sono ora è anche per quello, fa parte della mia vita, dell’uomo che sono ora. L’unica sensazione bella è stata quando ho toccato terra, ero contento”. Qualche tempo dopo ha comprato un biglietto per Padova per via di quelle rotte da avanscoperta e mutuo soccorso che appartengono a ogni comunità migrante. “È li che vivono quelli di Kabaria in Italia: a Padova o a Sanremo. Nessuno però aveva saputo indicarmi dove potevo fare pugilato”. Circa un mesetto dopo si era trovato a passare in piazza dei Signori, dove avevano montato un ring.
Vecchia Scuola
In ordine sparso, tra le cose che un maestro di pugilato può fare ci sono: avvicinare al culto del sacrificio e della pazienza, istruire come gestire e dominare il panico anche nei momenti più tesi, accompagnare nella crescita la persona oltre che l’atleta. Riconoscere il talento è un po’ come avere l’orecchio assoluto per un musicista. “Quando è arrivato qui da noi era giovanissimo, ma si vedeva da subito che aveva la stoffa”, racconta Massimiliano Sarti, ex pugile e maestro della PadovaRing, fondata a Padova nel 1948 al Foro Boario, nei pressi del Prato della Valle. È una delle società pugilistiche più antiche d’Italia. Luciano Sarti, padre di Massimiliano, è stato campione dilettante del Veneto, campione d’Italia dei pesi medi e vice campione d’Europa. Il team ha seguito anche Christian Sanavia, nel 1995 laureatosi campione mondiale dei pesi medi della WBC.
“Avevo in attività pugili titolati e già me li metteva in difficoltà. Era molto veloce, facevi davvero fatica a prenderlo. Un ottimo colpo d’occhio, una reattività da felino possiamo dire, una fibra muscolare solida. E aveva fame, voglia di riscatto. Abbiamo cominciato un bellissimo percorso insieme”. Percorso non soltanto sportivo: Akrem Aouina ha vissuto in strada, sotto i ponti, al freddo del duro inverno veneto. Ha cominciato a lavorare nella sicurezza, ha evitato le cattive strade che quella vita ai margini può suggerire grazie anche a quella parte di comunità tunisina che lo ha aiutato e protetto. “Era pacato, anche timido, non è stato facile per lui in un Paese nuovo e con una lingua che non parlava. Lo abbiamo trattato come un figlio – ricorda ancora Sarti – io sono in polizia, ho i miei contatti. Siamo riusciti a fargli avere il permesso di soggiorno, abbiamo cominciato a combattere un po’ in tutta Italia e ci siamo fatti conoscere”. Appena possibile, hanno vinto il campionato italiano. Era il 2018. “Si può dire che quella volta Akrem abbia combattuto con una gamba sola, aveva un problema al ginocchio”.
Aouina è passato professionista nel marzo del 2021. Solo una sconfitta nel suo record, contro Jemal Shalamberidze, nell’unico incontro all’estero, in Germania, nel febbraio 2022. Combatte una boxe che pretende di essere esaltante, che potenzialmente potrebbe catturare anche l’occhio dei non abituè. Scatta veloce di braccia, che spesso tiene basse, forse anche troppo basse. Scoppia i colpi all’improvviso, da angolazioni frequentemente non convenzionali. Si divincola in difesa da angoli e corde con schivate repentine. Ha un repertorio variegato. È esplosivo, preciso, elusivo. Non è passato inosservato. “Siamo anche noi una società forte – spiega Sarti – Fa sempre piacere vedere un tuo atleta che si realizza ma allo stesso tempo possiamo ammettere che c’è amarezza nel non poter condividere quel percorso. Umanamente è sempre difficile abbandonare qualcuno ma la vita è fatta di scelte. Certo è in buone mani e siamo sempre in buoni rapporti”.
Affamati a Milano
A Milano Akrem Aouina era arrivato per uno sparring con Yassin Hermi, nato a Firenze, padre tunisino. Peso medio. “Ricordo benissimo quando l’ho visto la prima volta. Ha fatto i guanti con uno e poi ha voluto continuare con altri. Mi ha dato l’impressione di uno con le palle”. Parola di Giacobbe Fragomeni, oro agli Europei di Minsk del 1998 da dilettante, con la Nazionale italiana alle Olimpiadi di Sydney 2000, campione del mondo WBC dei pesi massimi nel 2008: uno degli ultimi pugili ad aver fatto sognare gli italiani nonostante la nobile arte già non fosse più uno sport alla moda. Gestisce il team che porta il suo nome con la moglie Sara Rossetti. “Abbiamo parlato, ci siamo messi d’accordo e da Padova è venuto a Milano. Stiamo lavorando su tutto, si sta completando come pugile. Stiamo cercando la strada giusta per lui, ha fatto il mio stesso percorso tra Nazionale e professionismo”.
Aouina ha pensato fosse un’occasione buona per uscire dalla zona di comfort ed entrare in una piazza più grande. E con un ex campione del mondo. “Lui ce l’ha fatta, è diventato campione del mondo, il mio sogno. È un aspetto che mi dà una spinta in più a livello mentale, che mi dà forza anche quando mi racconta quello che ha vissuto. Ho imparato da tutti ma da lui posso prendere il 100% visto che come me ha avuto un passato difficile”. Cresciuto in periferia, Fragomeni ha cominciato sotto la guida dell’iconico maestro Ottavio Tazzi della palestra Doria: aveva già 20 anni. Prima di allora un padre violento, una sorella morta di overdose, gli abusi di droga e alcol. A 21 è salito la prima volta sul ring, a 24 era in Nazionale. Ha raccontato la sua storia nell’autobiografia scritta con Valerio Esposti, Fino all’ultimo round (Limina).
“Su queste cose voi giornalisti ci sguazzate, ma è vero: il pugilato non è uno sport per tutti. È uno sport per chi ha sofferto, per chi sa cosa sono i bassifondi, per chi ha voglia di riscattarsi. La fame fa la differenza”. Aouina è diventato campione d’Italia nel giugno del 2024 contro Pietro Rossetti. Nonostante una netta superiorità nei cartellini non era mancata qualche difficoltà, un atterramento controverso al nono round, un punto di penalizzazione. A novembre del 2024 la cintura WBC International Silver Welter contro Nicholas Esposito che ha difeso contro Mirko Geografo. A 31 anni ha un record di 13 vittorie, cinque per ko, e una sconfitta. Non ha la cittadinanza italiana, dettaglio che gli ha precluso il percorso per il titolo europeo EBU. Non sono in pochi a pensare che al momento sia il miglior pound for pound in Italia. E nel frattempo è passato dall’organizzazione in ascesa TAF (The Art of Fighting) di Edoardo Germani alla storica OPI Since 82 della famiglia Cherchi: come quando Luis Figo passò dal Barcellona al Real Madrid.
A Milano ha fatto arrivare anche i fratelli mentre il resto della famiglia è rimasta in Tunisia: anche Hussein è pugile, Ossem studia ingegneria informatica. Salgono sul ring con il fratello maggiore a ogni incontro. “Akrem ha tanta fame – racconta Fragomeni – fame che tanta gente non ha. Mi spiace ma io sono vecchio stampo: una volta lo spazio sui giornali te lo dovevi conquistare con un percorso e con le vittorie, dovevi battere i più forti. Non bastava farsi i video sui social da soli. C’è chi è pugile e chi fa il pugile, in molti lo fanno per farsi vedere. Cerco di farlo capire ai miei ragazzi, ovvio che usare i social oggi è normale e anche utile ma gli faccio vedere come mi alleno ancora io, li porto a correre in montagna. Lui vuole davvero farcela, lui respira il pugilato”.
Aouina non sopporta granché il fenomeno – soprattutto mediatico – dei maranza, tra integrazione e sicurezza, che a Milano ha il suo palcoscenico. “Se c’è qualcosa che odio è il razzismo, ma ancora di più odio chi si comporta male. Fanno delle cazzate che non hanno senso, mi fanno innervosire. Poi certo c’è chi vuole parlare male e sfruttare certe situazioni per diffondere odio, ma è anche grazie a certi comportamenti se possono farlo”. Al Teatro Principe, luogo storico del pugilato milanese, si tornerà a combattere dopo sei anni dall’ultima volta nella serata di venerdì 5 dicembre, diretta su DAZN. Anche Diego Lenzi nel sottoclou contro il senegalese Gora Niang. Tom Hill è molto alto per la categoria, inglese di Redcar nello Yorkshire, ha lavorato a lungo come montatore di impalcature. Record di 12 vittorie, tre per ko, e tre sconfitte, solo una volta battuto prima del limite. Ha allungo e costanza, non combatte dal luglio 2024. In palio ancora il fantasmagorico Mondiale Silver ad interim dei welter WBC. Non sarà questo l’incontro della vita ma sicuramente un guado significativo per approfondire le ambizioni mondiali di Akrem Aouina. Inshallah.