La Camera dei deputati che ieri ha votato all’unanimità una mozione per impegnare il governo a intervenire ancora contro la sentenza della cassazione francese che ha respinto definitivamente le richieste di estradizione di dieci cittadini italiani condannati per fatti di terrorismo, ha mostrato solo di non aver capito che questa possibilità non esiste. Ignoranza, nel senso letterale del termine. Non è una questione di sensibilità umana, la vicinanza alle vittime. Non è problema di rispetto tra Stati, e in particolare la solita strafottenza della Francia. E non si tratta neppure di valutare se il sistema giudiziario italiano sia migliore o peggiore degli altri.
I motivi di quella decisione sono solo strettamente tecnico-giuridici. E inattaccabili. Una lezione per l’Italia. Meglio farsene una ragione. Lasciamo perdere per un attimo la “dottrina Mitterand” e la sua ospitalità. E anche i giudizi morali, per favore. E il tempo passato. Qui siamo dentro le mura strette di un’aula “europea” che deve fare giustizia. Con i codici, non con le lacrime né le invettive. Con un grosso cubetto di ghiaccio nel cervello. La cosa che più stupisce, nei discorsi sentiti ieri nell’aula di Montecitorio -tutte persone per bene, per carità, molti di sicura fede liberale e attenti alle regole dello Stato di diritto- è il fatto che nessuno, nessuno, abbia fatto lo sforzo di esaminare la questione per quel che è. E stiamo parlando di un Parlamento pieno di avvocati e magistrati.
Dove sono gli Scarpinato e i Cafiero de Raho? Cui possiamo aggiungere la presa di posizione del sindacato delle toghe, che il 29 marzo, dopo la sentenza, così si esprimeva: “Desta amarezza e stupore la pronuncia della corte di cassazione francese”. Dunque, ricominciamo daccapo. Non per fare i saputelli, ma solo per ricordare che cosa dicono esattamente gli articoli 6 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quelli cui si sono ispirati i giudici francesi per la loro decisione. E anche perché è del tutto inutile il ricorso alla stessa Cedu che pare sia stato avanzato da alcuni parenti delle vittime e rispetto a cui la mozione approvata ieri impegna il governo a un sostegno legale.
L’articolo 6 impegna gli Stati, quando avanzano una richiesta di estradizione nei confronti di un proprio cittadino, a garantire che quel cittadino, una volta tornato in patria, non subirà diniego di giustizia. Se per esempio, come è nei casi di cui stiamo parlando, un imputato sia stato giudicato in contumacia, pur se in seguito a una propria scelta di sottrazione dal giudizio, si dovrebbe poter celebrare un nuovo processo in sua presenza. Cosa che nel sistema italiano non è prevista. I principi su cui si fonda la Cedu non considerano “giusto” il processo che si svolge in assenza dell’imputato, perché la sua mancata partecipazione non dà la certezza che lui sia informato con precisione delle accuse che lo riguardano. Può esser considerato eccessivo, questo principio, soprattutto se si hanno in mente la lunga latitanza di Cesare Battisti o comunque la sottrazione volontaria di chi è riparato all’estero. Ma se riflettiamo, non si tratta di altro se non del principio dell’habeas corpus, fondamento del diritto anglosassone come di quello giustinianeo dei nostri antenati. Questo è il succo dell’articolo 6: noi vi restituiamo i vostri cittadini se voi garantite a ciascuno di loro un nuovo “giusto processo”. C’è un buco normativo nella nostra legislazione, probabilmente. E infatti l’Italia è stata condannata più volte proprio per questa lacuna.
Ma è l’articolo 8 quello che disturba di più. Perché ha a che fare con la vita stessa. E suscita comprensibilmente aspri commenti sul fatto che, grazie alle azioni violente e sconsiderate di tanti anni fa di questi cittadini italiani, la vita molti non l’hanno più, e i loro cari ancora li piangono a cinquant’anni di distanza. Ma questi sono pensieri e sentimenti di chi non è tenuto a conoscere leggi e commi. Ma il governo e il Parlamento e l’Associazione magistrati dovrebbero riflettere almeno su quelle condanne all’Italia che arrivano in continuazione da parte della Cedu. L’ articolo 8 tutela l’inviolabilità della vita privata e familiare di ogni cittadino europeo. Ambito nel quale non si può mai intromettere lo Stato né alcuna pubblica autorità, se non per motivi gravissimi come il timore di attentato all’ordine pubblico o la commissione di reati. Nel caso dei dieci cittadini italiani, la sentenza aveva ricordato il fatto che erano tutti perfettamente inseriti nella società francese, che mai in tutti questi anni qualcuno di loro aveva commesso illeciti penali né aveva tenuto comportamenti che facessero temere problemi di ordine pubblico. Quindi va rispettato il loro diritto alla privacy.
Se questi sono gli argomenti, forse, invece di ironizzare, come ha fatto il sindacato delle toghe, sull’impossibilità di celebrare importanti processi se qualche imputato si sottrae volontariamente al giudizio, o di prendere atto con dispiacere della sentenza, come ha fatto il ministro Nordio, che pure nella richiesta di estradizione (avanzata in realtà da Marta Cartabia) è stato sostenuto dal governo francese con il guardasigilli Eric Dupond-Moretti, forse sarebbe opportuno mettersi una mano sulla coscienza. E domandarsi perché, nonostante l’importanza dell’articolo 111 della Costituzione, il processo nelle aule di giustizia italiane non sia considerato sempre “giusto”.