X

Se il referendum sulla Giustizia fosse solo un voto sul governo Meloni: quale sarebbe l’idea di riforma dei contrari

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

È venuto il momento di dire che se questo referendum confermativo sulla cosiddetta separazione delle carriere si riducesse a un giudizio sul governo in carica, essendo comunque un giudizio sulla sua politica della giustizia penale, si dovrebbe votare sicuramente no. Io non ricordo un governo peggiore, neanche quello gialloverde dei tempi di Conte-Salvini. Questa è una valutazione grave, ma non apodittica, perché non ha bisogno di molte esemplificazioni.

Il populismo punitivo che ha ispirato la maggior parte delle riforme penali escludenti e aggravanti, illiberali nella loro essenza, degli ultimi tre anni, è registrato dalla maggior parte degli osservatori, dalla dottrina non “di sinistra”, dalle Camere penali e dalle stesse riviste legate alla componente magistratuale. Se dunque una deriva punitivista è espressa da almeno trent’anni di interventi da parte di diverse formazioni governative e parlamentari (Cornelli, Rossi, La deriva punitiva della politica criminale in Italia, in Sistema penale, 27 novembre 2025), possiamo registrare una accentuazione negli ultimi tre anni. Il cittadino medio è ingannato dall’apparente ipertutela penale, che non garantisce nessuna sicurezza collettiva e tanto meno giustizia individuale. Si dovrebbe tradurre in un breve fumetto questa situazione per renderla comprensibile a livello massmediatico, sdrammatizzando il volto truce del populismo e ridicolizzando invece l’inganno. Non credo tuttavia che l’appuntamento referendario sia riducibile a questo tema.

Ancor meno esso è riducibile a un giudizio sul sistema giustizia, sulla fiducia nei pubblici ministeri o nei magistrati penali, periodicamente ma costantemente sotto accusa per episodi di malagiustizia, di carrierismo, di politicizzazione. Avere alimentato l’odio o la sfiducia verso la magistratura nel suo complesso è un altro grave comportamento dei politici di centro-destra, che solo per questo meriterebbero di perdere un referendum che, o in quanto, viene spesso presentato come una resa dei conti con le storture della magistratura penale, riflettendosi così in un giudizio negativo sulla magistratura intera, che invece è vittima di queste stesse storture ascrivibili a una sua minoranza. La rivincita del Cavaliere, così, lascia un legato ad epigoni assai meno liberali di lui.

Ciò premesso, queste forti spinte a contrastare l’approvazione della legge costituzionale oggetto di referendum per come è stata o viene presentata, non sono sufficienti a sostenere le ragioni del “no” che devono riguardare, semmai, la legge come è. Se il Presidente della Repubblica volesse svolgere un ruolo più interventista nelle vicende della giustizia, potrebbe dire agli italiani che oggetto del referendum è solo ed esclusivamente il sistema di governo dei giudici. Tutti gli altri argomenti politici di contorno sono possibili “motivi” collaterali, ma non toccano il cuore del voto. E se andiamo al cuore del voto le ragioni del “sì” appaiono prevalenti, anche se velate da varie scelte tecniche e redazionali sbagliate, le quali tuttavia non possono risultare decisive in una scelta referendaria. La legge costituzionale intende regolare un problema circoscritto, specifico della magistratura penale, che prescinde totalmente da una valutazione del sistema penale nel suo complesso. Il tema è quello della storica assimilazione di giudici e pubblici ministeri nella loro carriera, per come questa assimilazione si riflette negativamente sulle loro funzioni e sulle distorsioni di potere collegate all’esistenza di un consiglio superiore unitario, che costringe a vedere nei magistrati, pm o giudici, una unità di valori, di cultura, di passioni e soprattutto di protezione giuridica. Stessa razza.

Invece, loro sanno da tempo di non essere della stessa famiglia, ma gli è comodo lasciarlo credere, agli effetti della tutela disciplinare e di carriera, per essere più forti a livello politico, nella gestione del ruolo pubblico assunto da tempo della magistratura associata. Separarli nell’organo di governo significa spuntare le armi politiche attuali della magistratura associata. I consociati sanno che il pm è quello che ti vuole mettere dentro, mentre il giudice lo controlla. Possono essere virtuosamente uniti i due, certo, soprattutto di fronte alle forme più cattive e maligne di delinquenza in atto: ed è qui che li vediamo felicemente popolari nel neutralizzare il male, insieme alle forze di polizia. Ma superate queste fasi drammatiche, nel corso dei processi, i ruoli si separano subito, sono da sempre separati. E allora perché non riconoscere che queste diversissime funzioni processuali devono avere un riconoscimento costituzionale a livello di organo di autogoverno?
Ecco, si innesta qui un primo perché.

Molti magistrati temono, oltre che di essere messi sotto accusa come classe in generale, in una “resa dei conti” con gli eredi della visione berlusconiana della giustizia contro i pm (non contro i giudici civili per es.), di perdere effettivamente potere. Hanno ragione. Due Csm e una scelta dei componenti togati per sorteggio (magari entro un novero non esteso omnibus, ma a categorie qualificate per competenze ed esperienze, possibili nella normativa di attuazione) è un meccanismo preventivo (non punitivo necessariamente) rispetto a deviazioni emerse dopo la vicenda Palamara e il carrierismo spinto intrecciato a governi politici di alcuni processi, che ogni avvocato che abbia esercitato negli anni passati in vicende di qualche rilievo politico-amministrativo o imprenditoriale ha potuto conoscere o dovuto subire, insieme ad alcuni suoi assistiti. Che facciano diritto, anziché cercare il potere (cfr. quanto detto a suo tempo in “Questione giustizia”, 6.4.2021). Lo stesso dicasi per gli avanzamenti professionali: inconcepibile che si debba essere iscritti a una corrente per “fare carriera”. Lo stesso concetto di fare carriera dovrebbe uscire dall’immaginario del magistrato. Fare giustizia è la sua mission. Non fare carriera. La carriera è strumentale alla giustizia, non viceversa.

Su queste derive la magistratura, che è molto divisa su mille questioni, è rimasta compatta nella mancata autocritica. Sono pronti a ricominciare come sempre? Questa arroganza è intollerabile. Invece, la separazione delle carriere, già attuata in buona parte nei fatti, e ora rivista nei meccanismi elettorali, appare propedeutica a rinnovare la cultura della giurisdizione. Si apre qui lo scenario vero che sta a cuore a tutti. Il pm deve conoscere le logiche giudiziali e meglio sarebbe che arrivasse a questo ruolo dopo una congrua esperienza di giudicante o di difensore, ma questa riforma neanche si è posto il problema. Accusatore a vita è l’immagine francamente deplorevole che la legge (anche quella già vigente!) ci restituisce del pm. Mentre i due consigli superiori sono funzionali a cambiare le logiche perverse di interessenze e scambi politico-elettorali, la separazione delle culture “fin da piccoli” è qualcosa di odioso e perfino incostituzionale. Si pone qui un problema davvero cruciale per la risposta al quesito referendario. La decantata cultura della giurisdizione unitaria è stata troppo spesso strumentale ad escludere gli avvocati da questa cultura, che vedeva pm e giudici uniti in un ruolo superiore, anche nella posizione fisica al dibattimento (differenziata e più elevata quella del pm), fino alla riforma del 1988. Quella cosiddetta cultura della giurisdizione era espressiva di una formazione separata, la stessa che impedisce ai giudici di citare la dottrina, di riconoscere le dissenting opinions in sentenza e che orienta la SSM (scuola superiore della magistratura) a vedere nella formazione dei magistrati una schiacciante prevalenza di rappresentanti della magistratura rispetto a quelli accademici. È tutta una cultura separata e in realtà autoritaria che li unisce.

L’esigenza di un superamento di questo autentico bias ci appare una delle conseguenze desiderabili della svolta referendaria. Potranno seguire la discrezionalità dell’azione penale, e la presa d’atto che non ci sono sacerdoti della giustizia uniti, perché l’accusa è un atto politico che non deve essere interpretata come l’officio di una religione civile. Ovviamente deve essere difeso un postulato costituzionale che non è in discussione e che è presente anche negli ordinamenti ad azione penale facoltativa: la indipendenza del pm dal governo, da controlli politici in senso stretto relativi a singoli procedimenti e imputati. Una classe politica che interpreta oggi le sentenze sfavorevoli a leggi care alle politiche giustizialiste e repressive come atti di disobbedienza e di politicizzazione giudiziale, non dà purtroppo fiducia su questi scenari futuri: ma se vogliamo essere finalmente un paese normale dobbiamo accettare questa sfida di lotta per i diritti anche dei giudici. I sostenitori “uniti” del no non hanno nessun progetto di riforma rispetto al tema della separazione delle carriere. Tutto potrebbe restare così com’è. Uno scenario come questo, francamente, ci pare irrespirabile, e rappresenta una mancata risposta a un appuntamento storico e ai problemi del futuro. Non è in gioco la democrazia, come alcuni dicono – questa è sempre sotto assedio, in generale – ma è in gioco la democrazia giudiziaria.