Era il 21 giugno 2023 quando, con una spettacolare operazione di sgombero e trasferimento di circa 200 richiedenti asilo, veniva chiuso il cosiddetto Silos, un’enorme struttura adiacente alla stazione ferroviaria di Trieste centrale che fu, insieme a decine di altri edifici vicini in stato di abbandono, uno dei magazzini del porto (oggi detto vecchio) dell’impero asburgico. Nel Silos da circa due anni centinaia di persone che avevano chiesto asilo (o meglio, migliaia tenuto conto della loro rotazione) affondavano nel fango mostrando, in concreto, cosa fosse il sistema di accoglienza del Belpaese.
Di quello scandalo parlarono i giornali di mezz’Europa e diventò necessario chiudere un luogo diventato troppo imbarazzante (ci sarebbe stata anche la visita di Papa Francesco a Trieste e bisognava fare in fretta nell’estate del 2023). Molti dissero che, toccato il fondo, sarebbe finalmente giunto il momento del cambiamento. Molti, ma non chi scrive che era consapevole che non ci sarebbe stato nessun cambiamento di prospettiva. Purtroppo così fu. Da allora, salvo un leggero miglioramento del sistema di trasferimenti dei richiedenti asilo da Trieste verso il resto del territorio nazionale rimasto comunque insufficiente, nessun reale cambiamento è intervenuto a modificare una situazione che è proseguita nel segno del totale disprezzo della vita umana.
Sbarrato il Silos (con un costosissimo intervento) i richiedenti asilo dall’estate 23 ad oggi hanno trovato riparo negli altri magazzini abbandonati del porto vecchio (un’area vasta chilometri). Dal Silos come struttura unica di ammassamento che “ospitò” fino a 500 persone, si è semplicemente passati ad un Silos diffuso. Sono state continue, dal 2023, le operazioni di maxi trasferimento, realizzate solo quando il numero dei migranti sale periodicamente oltre misura e le persone restano all’addiaccio per mesi. Ogni operazione tuttavia altro non fa che riportare a una relativa normalità la situazione per qualche giorno, fino a nuovo riempimento. Ultime in tal senso le operazioni del 1 ottobre 2025 con 157 richiedenti asilo trasferiti e quella del 3 dicembre 2025 che ne ha trasferito un numero analogo, ma, per la prima volta rispetto alle altre ha lasciato in strada un altro centinaio di richiedenti asilo che, alla vista della polizia, si erano precipitati a mettersi in fila confidando che fosse arrivato anche per loro il momento dell’accesso all’accoglienza cui avevano diritto.
Ma a loro lo Stato ha detto di tornare pure nei magazzini abbandonati. Si vedrà, forse, più avanti. Poichè l’obiettivo dell’ultima penosa operazione predisposta dalla Prefettura di Trieste non era il censimento e la collocazione delle persone abbandonate, e la stragrande parte dei magazzini non sono stati neppure ispezionati. Non stupisce che quello stesso pomeriggio sia stato scoperto, dopo l’allarme dato dai suoi compagni, il corpo di un giovane algerino morto probabilmente di stenti proprio quel giorno. Si trovava in un piccolo magazzino adiacente all’area delle operazioni di polizia (non più di venti metri) dove lo spiegamento delle forze dell’ordine non si era spinto. Quella sera (ne fui testimone oculare) persino mentre erano in corso le operazioni di recupero del cadavere, decine di migranti attraversavano l’area delle operazioni per tornare “a casa” nei magazzini appena dietro quello del ritrovamento del corpo.
Pochi giorni prima un altro richiedente asilo, che aveva tentato inutilmente di presentare la sua domanda di asilo a Trieste, si era spostato in un’altra città del Friuli, Pordenone, dove ugualmente era stato abbandonato ed era morto per intossicazione da monossido di carbonio in una casa abbandonata. Per non morire di freddo, era morto intossicato. Uguale dinamica a Udine una settimana prima per altri due giovani; quattro morti di freddo e di stenti in un mese in una delle regioni più ricche d’Italia. Non morti accidentali attribuiti subito con facile ipocrisia a tragica fatalità, bensì omicidi silenziosi causati da colpevole inerzia delle istituzioni che delle persone abbandonate dovrebbero occuparsi.
Facendo uno sforzo per allontanare il senso di disagio, riprendo le parole usate dal presidente della regione FVG, Fedriga che sulle pagine del quotidiano Il Piccolo il 5 dicembre scorso si è così espresso: “Ci sono problemi di sicurezza, problemi nel garantire la legalità e su questo dobbiamo avere una posizione ferma perché la legalità non è un’opinione”.
Ci sono indubbiamente, e da anni, enormi problemi di rispetto della legalità nella gestione dell’accoglienza dei richiedenti asilo a Trieste e in FVG in generale, ma sono tutti, a parere di chi scrive, riconducibili alle condotte dei diversi organi della pubblica amministrazione coinvolti nel produrre l’abbandono dei richiedenti asilo in strada. Nelle parole di Fedriga di ciò non c’è traccia, mentre si opera un totale ribaltamento della realtà fattuale e della logica giuridica: ignorando l’evidente stato di necessità (art. 54 codice penale) in cui si trovano coloro che occupano i magazzini, Fedriga riversa la colpa sulle persone abbandonate dallo Stato. Esse sono, a ben guardare, colpevoli del fatto stesso di esistere.
Perchè Trieste e il FVG sprofondano in un tale gorgo di violenza rivolto (per ora) verso i migranti? Sarebbe un errore ritenere che si tratti solo di un contesto locale particolarmente duro dominato (come in effetti è) da una politica locale per la quasi totalità estremista. I territori del nostro confine orientale sono terre difficili e contraddittorie, ben lontane dal facile stereotipo della Mitteleuropa felice e sono spesso state nel ‘900 laboratorio di violenze politiche; ma sono state, in parallelo, anche luoghi di straordinaria innovazione – si pensi ad esempio alla rivoluzione basagliana. Dietro gli incredibili fatti di Trieste ci sono innanzitutto scelte politiche fatte a livello nazionale e segnate dalla decisione di non intervenire come finalità politica. Gli arrivi dei rifugiati dalla rotta balcanica non sono un fenomeno difficilmente gestibile per dimensioni e modalità degli ingressi; al contrario essi sono un fenomeno di entità assai modesta e del tutto gestibile con strumenti ordinari.
Con poche oscillazioni (e una contenuta contrazione nel corso dell’ultima annualità) gli ingressi a Trieste si sono attestati negli ultimi 4 anni tra le 13 e le 20mila persone all’anno, con una larga maggioranza di persone in transito verso altri paesi UE non essendo l’Italia un paese attrattivo per quasi nessun migrante. I dati più recenti relativi al 2025 ci dicono di una maggior propensione a rimanere in Italia da parte di alcuni gruppi nazionali e addirittura di situazioni di ritorno da altri Paesi UE a causa di politiche restrittive sempre più dure. Tali dati vanno però soppesati con cura, il tempo ci dirà se si tratta di segni di un cambiamento strutturale o solo di oscillazioni temporane. Ciò che è certo è che intanto l’accesso alla procedura di asilo è scelto da poche migliaia di persone all’anno, cioè poche decine di persone al giorno. Nulla di più lontano da un’emergenza dunque. Qualche struttura di prima accoglienza in più nell’ordine di non più di 100 posti, qualche minima velocizzazione dei trasferimenti verso il resto del territorio nazionale unita al rispetto della norma sull’accesso alla domanda di asilo, senza porre barriere e requisiti illegittimi, sarebbero elementi più che sufficienti ad assorbire tutte le persone abbandonate in strada da anni.
Perché dunque non accade? Quando l’incapacità pubblica ad agire giunge a livelli di assoluta irrazionalità come in questo caso non va fatto l’errore di considerare quanto avviene solo come manifestazione di incapacità dei pubblici poteri. Si tratta invece in primo luogo dell’espressione di una volontà politica che rincorre due obiettivi: il primo è la deterrenza; ostacolare l’accesso al diritto d’asilo e non dare accoglienza dovrebbe portare, secondo tale strategia, a scoraggiare gli arrivi o addirittura a prevenire le partenze, come se chi scappa dall’Afghanistan dei talebani o dall’Iran fondamentalista, o “semplicemente” dalla caduta in povertà causata dai disastri ambientali del Pakistan o del Bangladesh leggesse le notizie sul porto vecchio di Trieste comodamente seduto in una Casa del The di Teheran o altrove, valutando se, alla luce delle notizie, valga la pena di partire o meno. Solo la straordinario livello di cecità che attraversa il nostro presente può far ritenere che creare disfunzioni nei nostri sistemi amministrativi e di accoglienza possa agire da deterrenza nelle scelte estreme sulla propria vita che molti migranti sono costretti a fare.
Il secondo obiettivo politico è violare intenzionalmente le norme comuni sull’asilo in Europa spingendo i rifugiati ad andare altrove, non importa dove, purché non si fermino sull’italico suolo. Qui entra in gioco tanto un’ideologia xenofoba quanto l’ossessione ridicola di essere la destinazione di tutti i diseredatati del mondo, mentre siamo solo una delle destinazioni secondarie nelle scelte migratorie dei più, e il saldo negativo complessivo tra coloro che se ne vanno ogni anno dall’Italia e coloro che vi entrano, alimentato anche dalla fuga di massa dei giovani italiani, è impietoso.
Quella di Trieste è dunque un’emergenza artificialmente creata e persegue l’obiettivo del mantenimento di un sistema di gestione pubblica degli arrivi dei migranti segnato da una disfunzionalità sistemica; ogni progetto o programma che si ponga il modesto e agevole obiettivo di trovare una soluzione va evitato come la peste in quanto la soluzione del problema si tramuterebbe nel problema per chi, non avendo nessuna capacità di gestire il cambiamento e nulla da proporre per il futuro del Paese, è solo abile nel vivere politicamente di quella condizione di inerzia e sonnambulismo dell’attuale società italiana ben descritta nel rapporto del Censis 2025.