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“Su Gaza riflettori spenti, ma la tregua è solo sulla carta e gli aiuti sono insufficienti”, parla Silvia Stilli

Photo credits: Valerio Portelli/Imagoeconomica

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Silvia Stilli, già Presidente e attuale Consigliera dell’Associazione delle Organizzazioni Italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (AOI), che rappresenta più di 500 organizzazioni non governative.

Purtroppo, si parla sempre meno dell’evoluzione della tregua e del Piano di pace di Trump per Gaza. Quali secondo te gli effetti del Piano sulla Regione Mediorientale all’oggi e in futuro? L’Europa avrà un ruolo?
Grazie, intanto, per l’occasione di poter aggiornare sulla crisi umanitaria nella Striscia di Gaza. È vero che dopo l’avvio della “tregua” se ne parla sempre meno frequentemente. Purtroppo, la tregua a Gaza è più sulla carta che nella sostanza. Il Piano di Pace è stato accettato di fatto in maniera “condizionata” da entrambe le parti, Hamas e il governo israeliano. Le trattative sono ancora in essere, come dimostrano per esempio le recenti visite del capo del servizio di sicurezza israeliano Shin Bet, David Zini, al Cairo dal capo dell’intelligence egiziana e i contatti diretti di Trump con l’erede al trono saudita Mohammed Bin Salman. Gli interessi prevalenti del governo USA per chiudere la “questione Gaza” sappiamo essere quelli di una stabilizzazione dell’area che permetta la riapertura al mondo arabo mediorientale del mercato americano delle armi e dell’Intelligenza Artificiale e dia via libera agli affari internazionali legati alla ricostruzione nella Striscia. Il Piano di Pace presenta punti ovviamente di grande sensibilità per le due parti coinvolte, soprattutto per quanto riguarda il disarmo di Hamas e anche l’attuazione di un’amministrazione palestinese apolitica supervisionata da un Consiglio per la Pace. Hamas non intende deporre le armi “tout court” e per Netanyahu vi è una ferma opposizione di Israele a qualunque azione che porti a uno Stato palestinese a ovest del fiume Giordano. D’altronde, pubblicamente è stato molto chiaro il suo ministro degli Esteri Gideon Sa’ar, per il quale “riconoscere uno Stato palestinese equivarrebbe a riconoscere uno Stato terrorista”: sue testuali parole. L’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza Onu dei principi del Piano di Pace poco ha cambiato nelle posizioni di Hamas e del gabinetto di guerra che decide in Israele.

Qual è allora l’obiettivo di Tel Aviv?
L’obiettivo del Governo israeliano non solo l’attuale, lo abbiamo visto in tanti decenni e in maniera evidentissima dal 2024 con gli attacchi in Siria e in Iran, non è in sé la difesa della sicurezza del proprio Paese, quanto il controllo politico, territoriale e comunque economico dell’area mediorientale, garantito dagli Usa con cui condivide gli interessi. In questo quadro, ha particolare rilevanza il recente aumento degli attacchi militari israeliani in Libano. In verità dal 2024 non si sono mai fermati. Dal sud del Paese a Beirut, alla valle della Beqaa’ nel nord est e colpendo indifferentemente infrastrutture, abitazioni civili, fabbriche, si utilizza la scusa della ricerca di capi Hezbollah da eliminare, ma in verità l’obiettivo è la messa in ginocchio del Libano tutto, dove la presenza sciita è ingombrante e che ha una posizione geopolitica particolare nell’area. Anche qui la popolazione civile è vittima diretta e indiretta degli attacchi di Israele. Oltre la distruzione delle abitazioni e le morti nei bombardamenti, nei cantieri per la ricostruzione, che sono obiettivi sensibili, vengono colpiti gli operai a lavoro. Gli sfollati sono numerosissimi. L’ultimo attentato a sud di Beirut, obiettivo un capo di Stato maggiore di Hezbollah, ha colpito pochi giorni fa un appartamento e fatto altre vittime di nuovo a Dahiye, una città fantasma senza servizi pubblici e spazi aperti, in cui il grande raid estivo aveva distrutto 270 appartamenti, radendo al suolo 9 edifici, danneggiandone pesantemente 71 e 177 attività commerciali. Per un paese in strutturale crisi economica e con un equilibrio politico sempre in bilico, che accoglie da decenni rifugiati da tutta la Regione, questa situazione è insostenibile. Lo ha detto anche il Papa, là in visita nei giorni scorsi, che più in generale ha commentato: “Israele non vuole due Stati, ma è l’unica soluzione”. Ma il tema oggi assai complesso è da quale anno nei decenni a ritroso si deve partire per definire i confini di uno Stato palestinese, se poi se ne potesse parlare fattivamente in un clima così ostile. L’Europa, stordita dalla presenza d’iniziativa interessata dell’alleato americano, ha abbandonato la costruzione di una politica estera e di un’azione diplomatica unitaria che la veda protagonista nei consessi internazionali ed è fuori dalle trattative sul Piano di Pace per Gaza come da quello per l’Ucraina. Che dire?

Quali sono le condizioni della popolazione civile nella Striscia, entrano finalmente gli aiuti dai valichi?
Nella Striscia si è oltre il limite della minima soglia di tutela della vita umana. Restituisco i dati di pochi giorni fa, così come le Agenzie umanitarie li hanno trasmessi nel periodico aggiornamento e li hanno diffusi nel mondo delle ong che operano a Gaza. Dall’inizio della “tregua” l’esercito israeliano ha interrotto il cessate il fuoco 591 volte. In poco più di 50 giorni ci sono stati 357 morti gazawi, 903 feriti. Tra le vittime almeno 130 sono bambini e 54 donne. 38 persone sono state fermate e arrestate, senza contestazioni di reati accertati, nell’interno della linea gialla dove sarebbe permessa la libera mobilità. Le vittime civili dei cecchini sono 164. Hamas è accusato giustamente di non restituire ancora tutti i corpi degli ostaggi scomparsi, ma al tempo stesso anche Israele sta tardando a fare la medesima cosa con i civili arrestati e poi uccisi dall’esercito: 305 corpi di palestinesi sono stati all’oggi restituiti e soltanto 99 risultano identificati dal Ministero della Salute e dai familiari. Per la quasi totalità, in questi corpi si sono riscontrati segni di violente torture, arti spezzati e asportazioni di organi, tra cui cornee, cuore, reni e fegato. Non è immaginabile alcuna ragione che stia alla base dello scempio delle vite umane e dei corpi delle persone morte in questo conflitto e durante questa invasione. Nell’ultimo mese a Gaza le condizioni meteorologiche hanno generato l’alluvione, devastante flagello aggiuntivo che ha colpito le famiglie e la gente senza case e servizi nelle tendopoli. Ben più di 13.000 sono i nuclei familiari ammassati in una quantità di tende insufficiente, come vediamo nelle fotografie pubblicate e diffuse sui social. Si tratta di 1,2 milioni di sfollati che vivono in campi formali appena organizzati nei servizi, il 90% nel centro sud e nella zona centrale della Striscia, il restante 10% a Gaza City e nel Nord. Un altro milione sta in campi informali assolutamente privi di qualunque servizio e in zone non censite come “sicure”. Nella Striscia sarebbero dovuti entrare dall’inizio della tregua 600 camion di aiuti al giorno, ma se ne contano arrivati 4.200 in tutto, tra cui anche una parte di commercianti privati. Dalla tregua sono state distribuite meno di 90.000 tonnellate di aiuti di cui 60.000 di cibo e le altre in medicinali, coperte, abiti, nonché 9.000 tende. Con alluvione e inverno, a un milione e più di bambini sono stati distribuiti circa 33.000 abiti. Definire questi aiuti insufficienti è altamente riduttivo, enfatizzarne la rilevanza è vergognoso e colpevole. Il bilancio totale delle vittime e delle persone disperse a Gaza dal 7 ottobre 2023 è ben più di 71.000, con 171.000 feriti. Questi i dati del genocidio.

Questo a Gaza. E in Cisgiordania?
In Cisgiordania i coloni continuano con le violenze e l’esercito israeliano non interviene o colpisce i civili palestinesi e chi li assiste e tutela. Dal 7 ottobre 2023 al 13 novembre 2025, esercito e coloni israeliani hanno ucciso almeno 1.019 palestinesi, tra cui 221 bambini. Vicino a Gerico, nei giorni scorsi una decina di coloni israeliani armati e mascherati hanno attaccato 4 giovani anche italiani della Campagna Faz3a di sostegno alla popolazione civile, lanciata da attivisti pacifisti palestinesi. Oltre la violenta aggressione nell’abitazione che li ospitava e le conseguenti ferite, queste persone hanno subito la sottrazione di telefoni, documenti personali e carte di credito. Li conosciamo, una ragazza italiana ha solo 27 anni, sono assolutamente non violenti e solidali, responsabili delle loro azioni mirate ad attività di sostegno per la popolazione civile palestinese, dalla raccolta delle olive, osteggiata e contrastata dai coloni, alle iniziative di animazione per i bambini. La loro indignazione è stata giustamente per aver ricevuto attenzione mediatica e solidarietà e sostegno anche dal Ministro degli Esteri Tajani, mentre per i palestinesi vittime delle aggressioni degli stessi coloni non vengono spese parole. Due pesi due misure come sempre.

In questo contesto che resta drammatico di crisi umanitaria, le Ong italiane cosa riescono a fare e chiedono al Governo Meloni?
Le reti della società civile italiana di cooperazione internazionale ed emergenza umanitaria ormai da mesi stanno chiedendo al Governo italiano un aggiornamento rispetto all’incontro avuto prima delle ferie estive, in risposta alla piena operatività e alla disponibilità a contribuire all’impegno italiano nella Striscia per l’emergenza e la ricostruzione. Ci sono state da allora missioni della Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo della Farnesina e dell’Agenzia per la cooperazione, ma ancora non sappiamo quali effettivamente saranno gli impegni del nostro Paese per la popolazione civile nella Striscia. La Rete di AOI, anche in collaborazione con la CGIL, sta continuando a raccogliere donazioni a fare distribuzioni in luoghi sicuri di cibo e materiali di prima necessità, ad assistere le donne e i bambini con attività di sostegno psicosociale ed educativo, essenziale in condizioni di estrema fragilità, grazie alle organizzazioni presenti e quelle partner, continuando senza interruzione alcuna dall’inizio dell’occupazione israeliana. Abbiamo una grande responsabilità, come società civile solidale e di azione umanitaria in questo periodo, a Gaza, nei territori palestinesi, come in altre parti del mondo dove la popolazione civile subisce conflitti nelle tante aree di crisi: dai territori palestinesi all’Ucraina, dal Sudan al mar Mediterraneo della tratta dei migranti con i barconi. La responsabilità consiste nell’andare avanti con l’ostinazione della giustezza e dignità di quello che facciamo, cercando però di dare maggiore e più efficace voce alle nostre istanze, che hanno valore politico, non solo operativo.