X

Intervista a Paolo Ciani: “Critiche di Prodi? A qualcuno piaceva di più il Pd dei patti con la Libia”

Photo credits: Alessandro Amoruso/Imagoeconomica

Photo credits: Alessandro Amoruso/Imagoeconomica

Paolo Ciani, segretario nazionale di Demos – Democrazia Solidale, Vicepresidente del gruppo PD-Idp alla Camera dei deputati.

Romano Prodi sostiene che la sinistra ha voltato le spalle al Paese. Altri, anche all’interno del PD, rilanciano affermando che il partito si è spostato troppo a sinistra. Siamo a questo?
Quando Romano Prodi parla del nostro Paese e del centrosinistra lo ascolto sempre con grande interesse e credo che non vada mai liquidato con rapidità il suo pensiero o stiracchiato di qua o di là. Penso che il suo allarme parta da una considerazione oggettiva: circa la metà dei nostri concittadini non va più a votare, ha perso fiducia nei politici, nella politica, nei partiti, talvolta nelle istituzioni e forse nella stessa democrazia. Questo è un allarme rosso a cui non si può provare a rispondere solo con tattiche interne alle forze politiche già in campo. Se a questo aggiungiamo la situazione drammatica al livello internazionale con la guerra riabilitata, la corsa al riarmo e la delegittimazione delle istituzioni sovranazionali, si capisce la gravità del momento che stiamo vivendo. C’è poi una sofferenza che cresce nel Paese: sempre più persone sono povere, lo sono pur avendo un lavoro, con 5,7 milioni di italiani che vivono in povertà assoluta. Oltre 5milioni di persone non possono permettersi di curarsi, migliaia di famiglie che si rivolgono alla Caritas, alla Comunità di Sant’Egidio e alle tante realtà solidali, perché non ce la fanno a fare la spesa. È su questo innanzitutto credo, che dovrebbe concentrarsi il dibattito: quel che il centrosinistra vuole fare dinanzi alla crisi della democrazia e della partecipazione e alla crescita delle disuguaglianze. Quanto al PD, io credo che la segretaria Schlein stia facendo un lavoro importante sia per dargli una nuova identità, sia per costruire una coalizione che possa competere con il centrodestra. Non credo che il PD che parlava di diritti dei migranti e poi faceva gli accordi con la Libia, fosse più attrattivo di quello attuale… però oggi per me la sfida non è tattica o geometrica, ma come parlare e coinvolgere quella parte di italiani che non partecipano, hanno perso fiducia e non si ritrovano nei partiti presenti in Parlamento. Per questo con Demos e altre personalità e realtà abbiamo lanciato il percorso di Rete Civica Solidale: bisogna creare luoghi dove ricostruire un sentimento di comunità, dove le politiche sociali non siano subalterne alle politiche economiche, dove poter parlare di pace e guerra in maniera non ideologica, dove tradurre per il nostro tempo i grandi ideali di uguaglianza, fraternità, giustizia. E vedo nel Paese altri tentativi che vanno in questa direzione, con cui abbiamo iniziato ad incontrarci e confrontarci, come Comunità Democratica promossa da Delrio, o il percorso di Ruffini e dei suoi comitati. Più che aggrovigliarsi in polemiche “politiciste”, credo che lo sforzo principale debba andare nella direzione di costruire un’alternativa che metta al centro le persone e abbia una lettura e delle proposte per la società, coinvolgendo in maniera più larga.

Per aver sostenuto il movimento pacifista nella mobilitazione contro il genocidio a Gaza, Elly Schlein è stata tacciata di veteropacifismo e di subalternità a questo o a quello, con l’aggravante di essere sprovvista di una “cultura di governo”. Demos ha sostenuto quelle mobilitazioni. Anche lei si sente un inveterato “pacifinto”?
Demos è sempre stato per la pace secondo le parole di Papa Francesco: “non siamo neutrali ma schierati per la pace”. Questo nelle diverse e tragiche guerre di questi anni, dall’Ucraina a Gaza, partecipando a manifestazioni, organizzando incontri, promuovendo solidarietà; e rivendico anche di essere stati coloro che hanno promosso per primi iniziative sul Sudan (la più tragica delle “guerre dimenticate”) o sulla Repubblica Democratica del Congo, o sulla difesa della legge 185 sul controllo delle esportazioni delle armi. Proprio questo schierarsi per la pace e l’attivismo che ne consegue dà fastidio a chi vuole vivere il dramma della guerra – degli altri! – comportarsi come i tifosi allo stadio, in cui chi non la pensa come te è un tifoso della squadra avversaria da dileggiare e mettere all’indice. Ho poi promosso un intergruppo per la Pace alla Camera, parallelo ad uno fatto da Delrio al Senato e da Tarquinio all’Europarlamento. Quanto alla Segretaria del PD, credo sia stato importante che abbia espresso posizioni chiare sulla tragedia che si è consumata a Gaza. Ed è normale che non tutti possano essere d’accordo con alcune delle posizioni espresse su questi temi: fa parte della democrazia e del confronto politico. Penso che condannare la linea di questo governo, e di altri governi di centro destra che nel frattempo si sono affermati in Europa, e che stanno tentando di normalizzare la guerra e la violenza contro le persone più fragili e vulnerabili della società – basti pensare alla stretta sui migranti a cui stiamo assistendo in gran parte del mondo – non sia “veteropacifismo”: è, piuttosto, una questione di visione politica, alternativa a quella di chi ci governa oggi, una visione che non si arrende alla logica del conflitto permanente, dello scontro, della contrapposizione, dell’odio contro l’altro, della “cultura dello scarto”, cercando e trovando sempre un altro da accusare in una continua e infinita “guerra tra poveri”. Non significa essere ingenui: significa essere consapevoli che la pace non si invoca ma si costruisce quotidianamente, nella società e nelle relazioni internazionali.

Esiste un allarme democratico in Italia e in Europa?
Non si può negare che viviamo in un tempo di grave crisi democratica e imbarbarimento del linguaggio: mi ha molto colpito che la Commissaria Europea Dubravka Suica abbia usato l’espressione “deportazione”, riferita ai migranti irregolari. Innanzitutto, perché noi europei dovremmo sapere bene cosa siano le deportazioni e tutto il carico di drammaticità e dolore che ha significato questo termine; poi perché in un continente che da tempo permette ingressi legali col contagocce, molti dei migranti oggi legali, sono stati irregolari regolarizzati (Bossi-Fini ne regolarizzarono 700.000!). Poi c’è il tema dell’astensionismo che cresce, la sfiducia nella politica che è elevata e non accenna a diminuire, e molti cittadini non si sentono più rappresentati. In più, c’è un imbarbarimento sociale: si usano parole di vendetta contro i più fragili, si criminalizza la marginalità; una dialettica figlia di una certa lettura della sicurezza, dove quest’ultima viene declinata solo in termini di pena e repressione. Abbiamo assistito a provvedimenti spacciati per garanzia di sicurezza che alla fine hanno criminalizzato forme di dissenso, protesta, con target specifici verso le categorie più fragili come migranti e detenuti e talvolta anche i giovani – al centro del dibattito solo quando problema di ordine pubblico: sembrano essere più un bersaglio che protagonisti della vita pubblica e politica del nostro Paese. Inoltre, questi ultimi mesi sono stati preoccupanti anche per episodi che hanno riguardato la libertà di stampa. Quando si minacciano giornalisti, si minaccia la democrazia: se non è un allarme democratico questo non so cosa lo sia. Il caso Paragon o il caso più recente di Sigfrido Ranucci sono emblematici: dov’è la sicurezza, grande e decantata priorità del governo, quando si parla di libertà di stampa e di chi fa inchieste denunciando chi ha il potere? Il disegno è chiaro e la parola chiave sembra essere repressione, taciuta o manifesta che sia. Per finire, mi ha colpito e molto dispiaciuto lo scontro istituzionale aperto in questi giorni da FdI contro il Quirinale. Il Governo e la destra hanno già attaccato in questi mesi la magistratura, intaccando quella separazione e equilibrio dei poteri che caratterizza la nostra democrazia. Creare sospetti e attaccare frontalmente il Presidente Mattarella è grave e non aiuta la nostra democrazia.

Che manovra economica è quella presentata dal Governo e come l’opposizione intende contrastarla?
La definirei una manovra di piccolo cabotaggio. È stata criticata sin da subito, e non dall’opposizione, ma dai nostri istituti nazionali e terzi come la Banca d’Italia e l’Istat. Abbiamo seguito tutti le polemiche rispetto al taglio dell’Irpef: è vero, il taglio dell’Irpef c’è – si passa dal 35% al 33% – ma nei fatti, in quello che è il Paese reale, parliamo di un taglio non percepibile e, quando percepibile, non a vantaggio di tutti coloro che hanno bisogno. Per i redditi tra i 28mila e i 50mila euro lordi, parliamo di un aumento che va dallo 0 a 440euro annui; in particolare, i 440euro annui si traducono, a mala pena, in 36 euro al mese: cosa sono 36 euro nel bilancio di una famiglia monogenitoriale, ad esempio? Parliamo quindi di cifre irrisorie il cui intervento pesa quasi nulla: pensiamo che per i redditi tra i 35mila e i 40mila euro il beneficio si aggira tra gli 11 e i 20euro. Eppure, bisogna dire che il dibattito, soprattutto a sinistra, si è concentrato su una narrazione fuorviante dove chi ha un reddito lordo tra i 35mila e i 50mila euro è dipinto come un milionario, infuocando la già esistente polarizzazione nel paese, e senza concentrarsi sull’unico dato che conta: questa manovra non aiuta nessuno, e men che meno la classe media. Come al solito, e molto “populisticamente” hanno deciso di prendere il tema caldo, in questo caso le difficoltà reali della classe media, e manovrarlo a loro piacimento senza però offrire reali risposte, aiuti, sostegno, a quella che è la classe più ampia del nostro Paese. Il tutto in un contesto in cui i dati ci dicono che sempre più italiani non hanno i soldi per permettersi di curarsi: non parliamo di desideri come un viaggio ai Caraibi, ma il banale accesso alle cure – diritto sancito dalla nostra Costituzione, peraltro.

Lei si è molto speso sui temi di una giustizia giusta e nella denuncia delle drammatiche condizioni di vita nelle carceri. A che punto siamo?
A che punto siamo? Siamo a 66 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno fino ad ottobre 2025. Questo è l’unico “punto” che si discute quando si parla di carcere: i morti, l’emergenza, il sovraffollamento. Ma a tutto questo dobbiamo mettere un punto, perdonate il gioco di parole. Lo sappiamo, il sistema penitenziario italiano è in grave emergenza: dalle strutture vecchie – proprio il 9 ottobre scorso è caduta parte del soffitto di Regina Coeli, un carcere vecchio e antiquato a testimonianza della sofferenza del sistema penitenziario italiano – sino alla mancanza di attività rieducative. Il carcere è un pezzo di Stato: ma il governo sembra dimenticarsene. Nella realtà del carcere ci sono persone, dai detenuti ai lavoratori, che sono dimenticate. In questo senso il Piano Carceri proposto dal governo rappresenta una risposta molto parziale e inadeguata: si cerca di rispondere a un’emergenza strutturale, che va dalla mancanza di posti fino alla mancanza di personale, con interventi che al momento non hanno prodotto nulla. Non si può però negare una certa coerenza della linea governativa, dove permane la continua introduzione di nuove fattispecie di reato e altrettanti inasprimenti delle pene; come se il mantenimento della giustizia e della sicurezza corrispondesse direttamente al numero di reati e, di conseguenza, come se il carcere dovesse adeguarsi al numero di reati esistenti. Si aumentano quindi i posti in carcere come si aumentano i reati; certo è che se continuano così, tutto il Paese pullulerà di carceri… Oltre tutto ciò, una serie di circolari stanno peggiorando la vita quotidiana dei detenuti e dell’universo che ruota intorno al carcere, confermando l’idea anticostituzionale del governo: che le pene e la detenzione debbano essere punitive e non “tendere alla rieducazione del condannato”.