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“Sul riarmo Mattarella sbaglia, noi “transatlantici” non siamo stati un esempio per la pace nel mondo”, parla Emiliano Brancaccio

Photo credits: Sergio Oliverio/Imagoeconomica

Photo credits: Sergio Oliverio/Imagoeconomica

“Sul riarmo Mattarella sbaglia. Ma ammettiamolo, non c’è ancora un solido discorso pacifista alternativo, mancano le basi per veder nascere un robusto movimento per la pace”. Emiliano Brancaccio, innovatore critico del marxismo, autore dell’appello su “le condizioni economiche per la pace” pubblicato sul Financial Times, commenta il fallimento di un Natale che doveva essere di riconciliazione, o almeno di tregua. E che invece conta ancora uccisioni sommarie in Palestina, nuove vittime di guerra in Ucraina, autobombe contro generali russi e almeno altri sessanta conflitti armati sparsi nel mondo.

Professor Brancaccio, il presidente Mattarella ha dichiarato che in Europa la spesa militare è impopolare ma “poche volte come ora è necessaria”. Che ne pensa?
Penso che il presidente della Repubblica sia in errore. Gli ultimi dati SIPRI ci dicono che la spesa militare dei paesi Ue ammonta già a 371 miliardi di dollari, ben oltre i 314 miliardi della Cina, i 149 della Russia e gli 88 dell’India. Noi europei siamo secondi solo agli Stati Uniti, che tuttora spendono l’enormità di quasi 1000 miliardi all’anno per armamenti. Non abbiamo bisogno di altra spesa militare.

Mattarella però sostiene che bisogna tutelare quella “pace che l’Europa ha costruito coltivando la relazione transatlantica”.
Non mi pare che la “relazione transatlantica” abbia contribuito alla pace nel mondo. Forse Mattarella intendeva la “pax imperiale” imposta da Stati Uniti e alleati, alla quale anche noi italiani abbiamo contribuito per anni. Ma quella “pax” ha provocato quasi un milione di vittime in Iraq, Afghanistan e in varie altre zone del pianeta. Certo, le giustificazioni che ci davamo all’epoca erano alte e sacre. Un giorno dovevamo fermare dittatori attrezzati con fantomatiche armi di distruzione di massa, un altro giorno dovevamo esportare la democrazia. In realtà, i nostri veri scopi erano alquanto profani: conquistare giacimenti naturali, riequilibrare il deficit energetico dell’Occidente, creare nuove occasioni di affari per aziende americane, francesi, britanniche, tedesche, italiane, e così via. Il presidente Mattarella è cattolico, conosce bene il Vangelo di Giovanni: “la verità vi farà liberi”. Magari a Natale potremmo tutti contribuire alla verità almeno riconoscendo che noi “transatlantici” non siamo stati un grande esempio per la pace nel mondo, tutt’altro.

Dall’altro lato, alcuni intellettuali “critici”, come Angelo d’Orsi, Luciano Canfora, Carlo Rovelli, Alessandro Barbero e Lucio Caracciolo, sono stati censurati per le loro posizioni avverse al riarmo. Addirittura, sono stati accusati di “putinismo”. Che ne pensa?
La censura che hanno subìto è segno del clima di furore bellico in cui si sta inviluppando il dibattito politico. Bisogna sempre dichiarare solidarietà alle vittime di ogni forma di censura. Detto questo, io sono spesso in disaccordo con quegli studiosi. Alcune loro posizioni mi sembrano riduttivamente “geopolitiche”, troppo semplicistiche rispetto alla complessità della situazione. Così rischiano di rallentare la costruzione di un robusto discorso pacifista.

In cosa sbagliano?
Per esempio, alcuni di essi insistono nel dire che la Russia ha attaccato l’Ucraina solo per reagire all’espansione a est della Nato. È una tesi sostenuta anche all’estero, da Jeffrey Sachs e altri. Come al solito, qualche elemento di verità c’è. Ma nel complesso questa spiegazione è debole, troppo schiacciata sulla retorica della “sicurezza”.

Ma allora, come dobbiamo intendere l’attacco russo all’Ucraina?
Dico sempre ai miei studenti che per capire la guerra moderna dobbiamo “seguire il denaro”. Vale per tutti i conflitti oggi attivi sul pianeta. Nel caso dell’Ucraina, basterebbe esaminare le dichiarazioni dei vertici diplomatici di tutte le parti in causa per scoprire la verità: si tratta di una contesa locale che riflette uno scontro di interessi di portata mondiale.

Quale?
Nulla si comprende di questo tempo se non si parte dalla crisi debitoria degli Stati Uniti verso l’estero, che per questa ragione si vedono costretti a ritirare le truppe da molti teatri di guerra e a introdurre barriere protezioniste contro le merci e le acquisizioni estere. È una svolta epocale, che mette in crisi il vecchio mondo, le vecchie certezze del passato: dall’ordine liberista mondiale a guida americana fino alla stessa relazione transatlantica. Noi europei agiamo ancora da nostalgici del vecchio impero di cui eravamo vassalli. E paghiamo caro il prezzo dell’amarcord. Ma altri non agiscono in questo modo. Anzi, colgono nella crisi americana una straordinaria occasione di sovvertimento dei rapporti di potere mondiali.

E qui si inserisce la guerra..
Putin aggredisce l’Ucraina ma non è affatto isolato. Persino il prudente governo cinese spiega l’attacco come reazione all’espansione occidentale a est sostiene i conti russi con un boom dell’interscambio e poi precisa ogni volta che per ripristinare la pace bisogna “abbandonare il protezionismo”. È un chiaro messaggio agli Stati Uniti e a noi europei. Ci stanno dicendo che non possiamo più costituire accordi di cooperazione commerciale con paesi terzi che taglino fuori le aziende russe e cinesi, non possiamo elevare barriere contro le merci e i capitali che vengono dai Brics, né possiamo prendere i depositi russi o i pacchetti azionari di controllo cinesi situati dalle nostre parti e considerarli carta straccia. In sostanza, ci vogliono comunicare che noi occidentali non abbiamo più la forza per fare e disfare a nostro piacimento le regole del gioco economico. È l’esordio di una colossale contesa su chi dovrà dettare legge nel futuro ordine capitalistico mondiale.

In effetti, proprio sui temi economici lo scontro è più acceso che mai. Pensiamo alla disputa sugli asset russi, a tratti persino più dura delle controversie sulla linea di confine del Donbass..
Sugli asset russi si sono scontrate due diverse visioni del capitalismo europeo. Quella di Merz e delle oligarchie guerrafondaie, che volevano attuare una ritornante “accumulazione originaria” impadronendosi delle proprietà russe. E quella della BCE e delle élites finanziarie, che hanno difeso il diritto di proprietà di asset russi denominati in euro al fine di rassicurare tutti gli investitori esteri e salvaguardare così la reputazione capitalistica della moneta unica. È come se Lagarde avesse enunciato un nuovo “whatever it takes” adattato all’epoca imperiale: fare di tutto per salvare l’euro, al limite anche lasciare l’Ucraina al suo destino. Ma la partita è tutt’altro che finita.

In tempi non sospetti, lei aveva scritto che proprio gli europei potrebbero mettersi a remare contro la pace. E addirittura potrebbero “rompere un’eventuale tregua ordinando ai debitori ucraini di battere un colpo, un colpo di cannone”. Ci ha visto giusto?
I guerrafondai nostrani sono al servizio di quei capitalisti europei che già consideravano le economie dell’est “cosa loro”, e che non possono tollerare di esser scalzati dalle oligarchie russe ansiose di riprendere gli affari nelle ex province sovietiche, da cui erano stati cacciati via a calci. Insomma, è una evidente disputa tra esportatori di capitali, che oltretutto potrebbe vedere nuovamente in azione gli Stati Uniti come potenza guerresca, indebitata e disperatamente affamata di profitti. Dobbiamo partire da queste profane verità capitalistiche, se vogliamo sviluppare un robusto movimento contro la guerra.

Per quale ragione gli intellettuali “critici” non riescono a vederla in questo modo?
In fondo per ragioni analoghe a quelle per cui Mattarella e gli atlantisti evitano l’argomento. Gli uni e gli altri provano disagio di fronte a spiegazioni così profonde e strutturali, perché metterla in questi termini significa riconoscere che la guerra moderna è essenzialmente “guerra capitalista”. Ma questo significa ammettere che le spiegazioni etiche o securitarie vanno messe in secondo piano rispetto alla causa di fondo: una competizione economica tra blocchi che esonda nello scontro militare. Ossia, i primi cenni di una nuova fase dell’imperialismo, più simile a quella ante prima guerra che a quella post seconda guerra mondiale. Alcuni intellettuali “critici” contestano questa visione poiché ritengono che l’imperialismo sia sempre e solo americano. È una posizione infantile, un modo di guardare il mondo con lo sguardo rivolto al passato, che non ci fa capire niente della fase attuale. Poi ci sono altri intellettuali, più smaliziati, che in cuor loro sanno bene che l’unica seria interpretazione della guerra è quella che insiste sullo scontro capitalistico. Ma temono che l’opinione pubblica non sia pronta per affrontare una tale realtà, e quindi si adagiano anch’essi sulle retoriche della sicurezza, dell’etica, e così via. Il guaio è che questa strategia comunicativa porta, in ultima istanza, a giustificare la guerra degli uni o degli altri, e così riesce solo a dividere il popolo in bande di esagitati sotto questa o sotto l’altra bandiera, resi abbastanza ottusi per un futuro di carne da cannone. L’esatto opposto del pacifismo.

Come se ne esce?
L’unica cosa certa è che una pace duratura si costruisce ai tavoli delle trattative economiche. Per fare un esempio, se i paesi europei consentissero agli oligarchi russi di acquisire partecipazioni rilevanti e di entrare nei consigli di amministrazione delle grandi aziende europee, Putin si ritirerebbe in fretta dal misero Donbass, chiederebbe scusa per i massacri e pagherebbe tutte le riparazioni di guerra. Ma è evidente che i grandi proprietari europei farebbero di tutto per contrastare soluzioni di questo tipo. Si direbbero indignati, con la mano ben stretta sul portafoglio.

Lei sta dicendo che una pace capitalista è impossibile?
Questo lo diceva Lenin, e in effetti la prima guerra mondiale gli diede ragione. Io per adesso mi limito a esortare le donne e gli uomini di buona volontà, con una parafrasi di Vegezio: se davvero vuoi la pace, prepara la critica del capitalismo.