Ci sono partite che non possono finire senza vincitori e vinti: come quella che si è giocata a Bruxelles nella notte tra giovedì e venerdì. La posta in gioco non erano solo i mld necessari per tenere in piedi l’Ucraina che altrimenti sarebbe precipitata nella bancarotta e nell’obbligo di resa incondizionata. Non sarà così quei 90 mld che arriveranno dall’Europa grazie a un debito comune garantito dal bilancio europeo permetteranno all’Ucraina di non crollare. Salvano l’Ucraina, almeno per ora, e salvano anche l’Unione Europea perché uscire dal vertice dei 27 senza una soluzione per il prestito a Kiev avrebbe significaro la sepoltura dell’Unione stessa. La formula è simile, pur se su scala minore, a quella adoperata contro il Covid. Dunque è un passo sulla strada sempre in salita, accidentata e piena di ostacoli di una maggiore integrazione europea.
In ballo c’era una partita politica e forse più di una. La principale era quella sullo scacchiere geopolitico internazionale. La strada che volevano battere la presidente von der Leyen e il cancelliere tedesco Merz, ma anche i Paesi baltici e la Polonia e la stessa Ucraina, era quella della confisca degli asset russi in Belgio. Il confronto sarebbe stato direttamente tra Europa e Russia, ma anche tra Europa e America trumpiana, e l’Europa non avrebbe più avuto altra scelta che non appoggiare l’Ucraina sino all’ultimo, a tutti i costi e accettando ogni rischio inclusi quelli del confronto militare. Una parte importante della leadership europea, non solo nella Ue, era ed è convinta che altra strada per tornare a giocare un ruolo da protagonista e non da comprimaria per l’Europa non ci sia.
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Il fronte opposto era mosso da diverse considerazioni: la paura dell’estremo rischio economico e finanziario, per tutti e soprattutto per il Belgio, l’intenzione di non arrivare alla rottura con Trump, nel caso italiano, e alla guerra aperta con Putin, per Ungheria Slovacchia e Repubblica Ceca, forse anche l’obiettivo di ridimensionare una Germania che non è più quella di qualche anno fa, per la Francia. Quel fronte si è saldato, con la benedizione e forse anche con qualche più attivo intervento di Trump, quando nella notte il premier belga De Wever ha posto le sue condizioni: una ripartizione tra tutti i Paesi europei dei rischi non solo per la restituzione dei miliardi prelevati dagli asset russi ma anche per gli eventuali e astronomici costi delle cause certamente destinate a essere intentate da Mosca. La Commissione era disposta ad accettare quella condizione. I singoli Stati, inclusa la Germania, no. Troppo rischiosa per i bilanci di ciascuno.
A quel punto il Belgio, dopo ore di estenuanti trattative, ha deciso di confermare il suo no. Paesi determinanti come l’Italia e la Francia lo hanno appoggiato. Orban, ha sorpresa ha giocato di sponda dicendosi pronto a non opporsi al debito comune, sino a quel momento bersagliato come improponibile, con la formula dell’opt-out: astensione e non partecipazione dei tre Paesi di Visegrad all’indebitamento. Per l’asse Commissione-Berlino non c’è più stato scampo. “È un colpo fatale per von der Leyen, Merz e gli altri guerrafondai che dovrebbero dimettersi”, commenta Mosca e, truculenza a parte, almeno sull’indicare chi è stato sconfitto non ha torto.
Matteo Salvini in due giorni ha messo a segno una raffica di colpi. Assolto in Cassazione, soddisfattissimo dall’esito del braccio di ferro di Bruxelles, vincente nel braccio di ferro con il ministro dell’Economia che per la prima volta ha dovuto fare marcia indietro sulle pensioni. È probabile che alla fine riesca a strappare qualche modifica, più simbolica che sostanziale, nel decreto Armi. Da anni il leader leghista ha dovuto muoversi con l’handicap della possibile condanna sul groppone. Ora prova a tornare protagonista.