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“Salvini fa vicepremier o il portavoce di Putin?”, la domanda di Schlein a Meloni

“Salvini fa vicepremier o il portavoce di Putin?”, la domanda di Schlein a Meloni

Al centro del dibattito di oggi e domani nel Consiglio europeo troneggia una sola questione: l’uso degli asset russi congelati sine die grazie a un voto recente preso non all’unanimità ma a maggioranza qualificata. E’ ovvio che lo stesso nodo, peraltro tanto importante quanto ad alto rischio, sia il passaggio centrale tanto nelle tradizionali comunicazioni di Giorgia Meloni al Parlamento alla vigilia dei Consigli europei quanto nella Risoluzione di maggioranza. Che, nonostante le conclamate divisioni interne sul capitolo-Ucraina, è unica mentre le opposizioni, anche stavolta, ne mettono ai voti cinque: una per partito. Ma il sassolino nella scarpa di Giorgia è evidentemente troppo fastidioso. La spinge a forzare il fair play istituzionale che in occasioni identiche aveva sempre mantenuto (evitando di polemizzare nelle comunicazioni propriamente dette e riservando frecciate, sarcasmi e assalti frontali alla replica). Stavolta invece la premier abbandona ogni aplomb e passa alla clava già nel primo discorso e lo fa, oltretutto, su una questione che con l’agenda del Consiglio non c’entra niente. Quel sasso è la sentenza che ha rimesso in libertà l’imam di Torino Shahim, colpevole di opinioni aberranti ma pur sempre libere opinioni liberamente espresse.

La premier parte dalla strage di Sydney, denuncia giustamente l’antisemitismo crescente poi scarta: “Approfitto per dire che alla politica e alle istituzioni spetterebbe il compito di preservare la Repubblica dai rischi per la propria sicurezza, inclusi quelli derivanti dalle predicazioni violente di autoproclamatisi imam. Un impegno che dovrebbe valere per tutte le istituzioni, magistratura compresa”. Dal punto di vista degli equilibri istituzionali è un’affermazione clamorosa, che assegna indebitamente alla magistratura compiti che spettano alle forze dell’ordine e mette sotto accusa le toghe proprio per non violare i limiti del proprio ruolo come Giorgia vorrebbe. Dal punto di vista politico è un tentativo di colpo basso in diretta tv che rivela la preoccupazione della premier per l’esito di un referendum nel quale si gioca moltissimo. Quando arriva il suo turno, nelle dichiarazioni di voto, una Elly Schlein che con l’esperienza ha trovato un tono tribunizio ma efficace rimbecca la premier soprattutto sui successi che continua a vantare e che sono smentiti dalle cifre reali, sull’unità della maggioranza che presenta sì una mozione unitaria “ma solo perché è vuota tanto che neppure cita le armi”, sulla dipendenza da Washington e sulle posizioni del governo sulla pace che cambiano a seconda di chi sia insediato alla Casa Bianca: “La sua voce è un sussurro. Lei non incide e non guida: ma dopo tre anni gli alibi sono finiti”.

La stessa Elly Schlein parla di Ucraina bocciando il piano di Trump e prendendo di mira con efficacia Salvini: “E’ ancora il vicepremier o è il portavoce di Mosca?”. In realtà il governo e l’intero Paese si giocano moltissimo nella decisione che verrà presa tra oggi e domani a Bruxelles. Meloni gioca su due registri diversi: in superficie l’intesa con l’Europa è piena. Indica quattro pilastri per una pace possibile: tre corrispondono alla posizione della Ue nella sostanza, il quarto solo nella forma. Giorgia elenca il sostegno strenuo all’Ucraina per moltiplicare il peso contrattuale di Zelensky nella trattativa, aumento della pressione anche economica sulla Russia, che non è affatto forte come si racconta tanto che in quattro anni di guerra ha conquistato solo l’1,45 del territorio ucraino, la tutela degli interessi europei. Il punto più critico, che Meloni mette al primo posto, è “lo stretto legame con gli Usa, che non sono competitor, atteso che condividono lo stesso obiettivo”.

Ufficialmente tutta l’Europa la pensa allo stesso modo. In realtà il governo italiano è quasi l’unico a non considerare Trump una minaccia. E nelle scelte concrete che la distanza tra Roma e Bruxelles si rivela. I volenterosi progettano di inviare truppe in Ucraina, come garanzia dopo la fine della guerra: “Ribadisco che l’Italia non intende inviare soldati”. E’ in ballo l’ingresso immediato di Kiev nella Ue: “Riteniamo che qualunque strumento debba sempre rispettare i nostri valori, i princìpi e le regole dello Stato di diritto”. Dunque finché non sarà assicurato il rispetto degli impegni assunti da Kiev su riforme e corruzione non se ne parla. Sulla confisca degli asset russi l’Italia darà battaglia. La premier non lo dice apertamente ma è come se lo facesse: “Abbiamo il dovere di preservare l’equilibrio tra l’assistenza concreta all’Ucraina e il rispetto dei princìpi di legalità, sostenibilità e stabilità monetaria e finanziaria”. I vertici europei sono decisi a procedere in quella direzione. Il governo italiano e quello belga sono altrettanto determinati a impedirlo. Il dibattito di ieri a Roma è stato per Meloni in discesa. Quello di oggi a Bruxelles non lo sarà affatto.