Ha preso il via ufficialmente due giorni fa la campagna di comunicazione per il no al referendum sulla riforma della giustizia, promossa dal Comitato “Giusto Dire No”, quello dell’Anm. La campagna ha esordito sui canali social del Comitato con un contenuto visivo che pone al centro una domanda: “Vorresti giudici che dipendono dalla politica?” A rispondere alla domanda, una cittadina, che esibisce un grande fumetto con la scritta “No” a caratteri cubitali. Messaggio sicuramente performante quello adottato.
Tuttavia nel ddl costituzionale su cui saremo chiamati ad esprimerci la prossima primavera non c’è scritto da nessuna parte che i giudici saranno asserviti al Governo di turno. Si tratta di una deduzione da parte dei contrari alla riforma che potremmo annoverare nella categoria della fallacia del pendio scivoloso. Tuttavia, anche dall’altra parte, ossia da quella dei riformatori si stanno scegliendo argomenti a favore che nulla hanno a che vedere con il focus della riforma, ossia quello di un riequilibrio tra le parti all’interno di un’Aula di giustizia. Lo ha fatto il Ministro Carlo Nordio quando ha sostenuto che il nuovo assetto dell’ordinamento giudiziario “gioverebbe anche” ai rappresentanti dell’opposizione, “nel momento in cui andassero al governo”. Lo ha fatto il sottosegretario Alfredo Mantovano quando ha detto che la riforma serve a contrastare “una invasione di campo” della magistratura “che va ricondotta”. Lo ha ribadito la premier Giorgia Meloni qualche giorno fa dal palco di Atreju nel momento in cui ha voluto ribadire con fermezza che “non ci sarà più una vergogna come il caso Garlasco” con la vittoria dei Sì. Eppure l’iter processuale del delitto di Chiara Poggi dimostra senza ombra di dubbio che non esiste alcun appiattimento del giudice sul pm, essendo stato Alberto Stasi assolto per ben due volte. A ciò va addirittura aggiunto il fatto che nel secondo giudizio di legittimità la Procura Generale chiese l’annullamento della sentenza di condanna. Casomai la vergogna è che non si riesce a mettere mano alla riforma dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione.
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Altrettanto debole appare l’uso del caso di Enzo Tortora: condannato ingiustamente in primo grado venne poi assolto in secondo. Semmai di quella storia deve essere ricordato l’isolamento che subì poi il giudice Michele Morello, mentre gli accusatori fecero carriera. Negli ultimi giorni poi la decisione della Corte di appello di Torino di accogliere il ricorso presentato dalla difesa di Mohamed Shahin ha portato il Ministro Matteo Salvini a parlare di “ennesima invasione di campo di una certa magistratura politicizzata che si vorrebbe sostituire alla politica”.
Sicuramente questi messaggi servono alla maggioranza per fomentare i loro elettori e invogliarli ad andare alle urne a marzo a votare Sì. Contemporaneamente però quegli stessi messaggi rischiano di aumentare i No o di non portare al voto coloro che, pur convinti della bontà della riforma, vi rintracciano ragioni distorte e autoritarie. Dunque da entrambi gli schieramenti si sta perdendo chiaramente di vista il contenuto della norma costituzionale che parla di altro e dovrebbe ambire ad altro. Come disse qualche tempo fa l’ex presidente dell’Unione Camere Penali Valerio Spigarelli “io non voglio la separazione delle carriere o la riforma del Titolo IV per tagliare le unghie alla magistratura. Ci sono talmente tanti argomenti per dimostrare che il sistema giustizia non funziona e che la soluzione risiede anche e soprattutto nella separazione delle carriere e nella riforma del Csm che non occorre usare altri argomenti”.