Sono combattuto nello scrivere adesso. Ho la netta sensazione che tutto ciò che uno pensa, vada a finire nel grande calderone che alimenta ciò che sento di dover combattere. E più si tenta di articolare il discorso, costruendo sovrastrutture razionali raffinate, assolutamente sensate, logiche, più ho la percezione di un apparato di “cattura” che ti aggancia e ti trascina dove vuole, e sempre lì, ad alimentare il mostro. Sembra che questo sia diventata – o lo è sempre stata? – la “politica”. La politica o il politico come impossibilità di farsi bastare l’essenziale. Si parte da un comportamento umano, che esprime il massimo possibile di disumanità agendo quella che Kant definiva “la guerra di sterminio” nell’ambito di una guerra civile globale, e si comincia ad abbandonare quella “radice” fattuale che lo caratterizza, costruendo infiniti castelli semantici e analitici sopra l’essenza. Alla fine questa costruzione di discorso dalle infinite articolazioni, produce ai miei occhi almeno due effetti: ci si allontana da ciò che è accaduto, dalla sostanza in sé, immanente, verso l’arruolamento, volenti o nolenti, da una parte o dall’altra. L’arruolamento forzato non è solo un’immagine metaforica: in mezzo ad una guerra se vieni catturato e sbattuto in trincea, anche se non vuoi, quella diventa la “tua” guerra, e le opzioni diventano binarie: o di qua o di là.
Su cosa scommettono gli agenti Smith dell’arruolamento forzato in questa Matrix della guerra civile globale? Che lo spirito di sopravvivenza ti costringa a diventare parte della guerra, qualsiasi parte, perché il primo problema per la guerra contemporanea è non cessare mai. Vincere o perdere, nella guerra contemporanea che si inserisce anche quando a condurla sono eserciti e Stati, nella dimensione globale e civile di un conflitto permanente come regolatore del mondo a geometrie di comando variabili, è assolutamente relativo. Il problema è farla durare, alimentarla nel tempo. È lo scenario della “pace impossibile” o della “tregua come dosaggio dell’intensità della guerra”, e mi sembra lo scenario che si ripropone continuamente davanti a noi.
Il secondo effetto della “costruzione del discorso” articolato e logico sopra l’essenziale, da qualsiasi parte esso si articoli, è quello di allontanare dall’essenziale di ciò che accade per non farlo più riconoscere. L’apparato di cattura dell’umano, davanti alla sua possibilità e desiderio di rimanere ancorato all’essenziale – vita, morte, dolore, gioia, armonia, distonia, odio, amore – interviene sulla natura universale della nostra esistenza. È una azione, violentissima, biopolitica, che punta a recidere ogni legame, ogni connessione, tra l’uomo e questo pianeta, tra l’uomo e l’universo. Questo è causa e conseguenza anche del non riconoscimento dell’altro da noi come facente parte del “noi”. La disumanizzazione dell’altro, è alla base della guerra di sterminio. Noi non siamo l’unica parte esistente di ciò che esiste “disconnessa” dal resto. Noi veniamo disconnessi. Anche questo non è un concetto trascendentale, ma maledettamente materiale: le neuroscienze spiegano le modificazioni del nostro cervello ad esempio, in funzione della “delega” di funzioni fondamentali, ad apparati tecnici, macchinici. Non sto a dire sull’IA, ma ho appena ascoltato Miguel Benasayag su esperimenti condotti su taxisti abituati a usare il gps per orientarsi e su quelli che non lo utilizzano: la parte del cervello preposta a costruire processi cartografici in rapporto allo spazio e al tempo, nei primi registra una “atrofizzazione” anche fisicamente misurabile.
Essenziale, cioè radice. E cercare l’essenziale, volerci stare aggrappato senza sovrastrutture che ci allontanino da esso, diventa esercizio di “radicalita”, pratica radicale. Per anni ho pensato che le pratiche radicali fossero quelle dure e pure, intransigenti e senza mediazione alcuna, che si esprimevano nella forma che “esteticamente” più le rappresentava. Non lo pensavo, lo facevo. Poi c’è stato il passaggio alla “radicalità del progetto”, Utopía nel senso di Tommaso Moro. Ma oggi credo che la radicalità si possa riassumere innanzitutto nella capacità di rimanere all’essenziale. Coltivando a partire da questa scelta di “pre-politica”, il “sentire” più che il “pensare”. Ora come mi “sento” dopo la strage di Sidney? Come mi sento dopo le notizie dei bimbi morti di freddo a Gaza? Come mi sento dopo aver visto i volti e la disperazione degli sfollati ucraini nei campi profughi? Come mi sento a sapere dei massacri in Sudan? Sentire non è pensare. Il pensiero alla fine non ci appartiene. Siamo inseriti in flussi di pensiero che ondeggiano, vagano nel tempo e nello spazio da millenni e millenni, e il nostro pensare è pensare quello che è stato pensato. Ma la “singolarità del vivente” è il sentire. Non vi è una sola realtà, come ci spiega la fisica quantistica peraltro, ma la realtà che con il nostro “sentire” si modifica alla nostra percezione visiva, di tatto, di senso dunque. Non è questione di “empatia”, ma di un processo ben più complesso e in profondità, del quale chi vuole dominarci in larga scala come popolazione umana-altri umani, una élite, che oggi in questo tempo storico assume le caratteristiche del mix tra vecchi fascismi e nuove tecnocrazie – ha deciso di provare a privarci.
Non tutti “sentiamo” dolore, sofferenza, per il male dell’altro. In neuroscienze, il fenomeno di gioire del dolore altrui è noto come Schadenfreude. Questo termine tedesco, che significa letteralmente “gioia per il danno”, descrive un piacere sottile o segreto che si prova quando un’altra persona fallisce, si fa male o viene umiliata. O uccisa. Non è sadismo. E attraverso social e interventi pubblici dall’alto, stiamo assistendo ad una “rieducazione e promozione” allo Schadenfreude. Ma anche qui, non è solo filosofia: gli studi di imaging cerebrale hanno fornito alcune spiegazioni fisiche, concrete, maledettamente materiali. Sistema di ricompensa: quando si sperimenta la Schadenfreude, si attiva il sistema di ricompensa del cervello, in particolare lo striato ventrale e il nucleo di Accumbens. Questi sono gli stessi circuiti che si attivano in risposta a piaceri primari come il cibo, il denaro o l’accoppiamento, con conseguente secrezione di dopamina.
L’obiettivo politico del programma di rieducazione è la Riduzione dell’empatia: l’attivazione di queste aree avviene in parallelo a una diminuzione dell’attività nelle aree cerebrali legate all’empatia, come la corteccia cingolata anteriore e l’insula, specialmente se la persona che soffre è percepita come un avversario o un membro di un “gruppo esterno” (out-group). Il controllo biopolitico dunque mira all’essenziale della nostra natura. A direzionare in maniera calcolata e precisa la mutazione antropologica dell’umano, per privarlo di alcune sue singolarità e caratteristiche a favore dell’espansione provocata di altre. Per tollerare i mostri e le mostruosità del nostro tempo, dobbiamo diventare tutti mostri e alimentarci di mostruosità.
Mi capita di pensare a quello che con tanti altri e altre faccio da quasi dieci anni: la pratica del soccorso civile in mare. Una azione che è destinata, almeno per ora, ad essere di assoluta minoranza. Troppe le implicazioni politiche che investono il naturale e storico processo migratorio. L’azione del potere costituito in questi anni, è stata tutta rivolta a spostare l’asse del discorso, creando un immaginario negativo, dall’atto umano del soccorrere, a quello politico e disumano del lasciar morire per “respingere”. Respingere chi? “La minaccia alla nostra stessa identità, i migranti”, come recita il documento strategico appena emanato dalla Casa Bianca. Uno dei pilastri dell’intera strategia globale “della più grande democrazia del mondo”, insieme a quello del ritorno alle sfere di influenza e alla accelerazione della distruzione dell’Europa come spazio politico, sono i migranti. In ogni angolo del mondo occidentale, la destra suprematista tecno oligarchica, costruisce su questo la sua azione non solo di propaganda elettorale, ma di “ri-educazione“ dell’umano. Ho smesso di legare quello che faccio ad una ricerca del consenso. Lo colloco nel “cono d’ombra” dal panopticon nel quale si può sviluppare l’azione cospirativa contro questo dominio, che mira alla creazione di un “oltre umano” dalle caratteristiche funzionali a questo tipo di mondo, permanentemente in guerra e caratterizzato da progetti dichiarati di “eliminazione dell’umanità in eccesso”. E dunque, per dare un senso a ciò che faccio, devo stare all’essenziale: non ho ricette per affrontare il tema della migrazione, ma “sento” che devo provare ad aiutare coloro che ora riconosco come mie fratelli e sorelle. Li riconosco per riconoscere me stesso. Uno degli slogan usati da Mediterranea, più dalla sua componente di minoranza, quella cristiana, è “noi li soccorriamo, loro ci salvano”. Qui sta la spiegazione: ci salvano dal non essere più in grado di riconoscere noi stessi come esseri umani. Essere “umani” non vuol dire non avere nel nostro cervello, nel nostro cuore, la crudeltà, l’odio, l’intolleranza, la cattiveria e tutto il resto. Essere umani vuol dire non consegnare all’atrofizzazione programmata tutte le funzioni che invece generano gioia, amore. Per dirla con Baruch Spinoza metterci nelle condizioni di poter combattere le nostre Passioni Tristi e favorire quelle Gioiose. E dunque ho scelto e scelgo di combattere una battaglia persa agli occhi del mondo. Una mission impossible, di minoranza, che mi costa cara. A me e a tutte e tutti quelli che lo fanno, in terra e in mare. Per lo Stato, quello dei lager in Libia e delle guerre, sono una “minaccia alla sicurezza nazionale”. Per gran parte dell’opinione pubblica ri-educata, siamo diventati “trafficanti di esseri umani, che lo fanno per soldi”. Ma io devo farlo. Perché lo “sento”. E anche dire che “lì mi porta il cuore”, mica è una cosa romantica: maledettamente fisica. Cuore e cervello comunicano tramite una potente rete elettromagnetica, con il cuore che genera un campo elettrico e magnetico molto più ampio di quello cerebrale, influenzando percezione, decisioni e cognizione. Il cuore è uno dei nostri “cervelli”. Il suo campo elettromagnetico è 5000 volte più potente di quello cerebrale. Ma non solo. Il nostro cuore si connette agli altri esseri umani: agisce come segnale sincronizzatore non solo nel nostro organismo, ma anche nel campo dell’ Influenza interpersonale. Può essere percepito da altre persone, influenzando i loro stati emotivi e fisiologici, soprattutto in condizioni di coerenza. Sentimenti di gioia, amore e gratitudine armonizzano questo campo, mentre stati negativi lo rendono caotico, influenzando l’intero sistema corpo-mente e l’interazione con l’ambiente. Siamo tutti connessi e ad ogni particella dell’universo. È un fatto materiale, materialistico, misurabile, conosciuto, accertato.
Vogliono invece ri-educarci all’essere umano limitato e privo di questa capacità di potenza. E dunque esercitare queste nostre singolari parti “dimenticate” di noi stessi, del nostro essere corpo e mente, attraverso pratiche concrete, significa opporsi alla nostra riduzione a soldatini della macchina produttiva del capitalismo contemporaneo. Restare umani non vuol dire restare dove si è collocati, nella Storia e nel mondo. Vuol dire esplorare l’umano come campo infinito di risorse utili alla liberazione dalla schiavitù. Qualsiasi forma essa assuma nel tempo. Un obiettivo per me più rivoluzionario di tutti. La strage di Sidney mi ha prodotto un dolore infinito. Lungo, profondo come se mi avesse inghiottito un buco nero. Le immagini di Gaza lo stesso, giorno dopo giorno. Il pensiero delle donne uomini e bambini rinchiusi nei lager libici o abbandonati a morire di sete nel deserto o in mezzo al mare, lo stesso. Sono cambiato, penso che ogni resistenza all’ingiustizia e all’oppressione, debba produrre vita e mai morte. Anche nelle forme più dure, debba essere l’espressione dell’altrove e del tutt’altro da ciò che si propone di combattere. L’essenziale è una necessità per attraversare questo deserto. Non riesco più ad appassionarmi su “di chi è la colpa”, “chi ha cominciato prima” e su tutte le infinite sovrastrutture che mi allontananano da ciò che sento dentro. Una strage è una strage. Uccidere un bambino è uccidere un bambino. Volerli uccidere tutti è volerli uccidere tutti. Lascio che l’immagine dei loro occhi, sotto le bombe o sotto il tiro di assassini della porta accanto, prenda tutta la scena e tutta la sostanza. Vorrei avere il coraggio di quel signore musulmano, Ahmed al Amhed, che si è gettato su uno dei carnefici per disarmarlo. Questo è per me oggi resistenza. Rivoluzione. Essere fragile e in minoranza sento che sono la mia salvezza.