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Giorgia Meloni, la populista di quartiere che non si assume nessuna responsabilità politica

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Giorgia Meloni sul palco di “Atreju”, a dispetto del ruolo, dei doveri istituzionali e dei suoi non meno evidenti limiti, se non proprio tare culturali, nello sguardo dei più semplici disarmati spettatori del girmi politico viene invece percepita come vittima inerme degli altrui meschini magheggi, segnatamente dei “sinistri”. Così in chi non ami andare oltre l’apparenza immediata.

I dettagli della sua postura determinano infatti in molti una forma di identificazione a costo zero. Chiedere loro di interrogarsi sull’inattendibilità, le trappole, le sirene e le mistificazioni proprie del linguaggio del populismo è quindi tempo e fatica buttati al vento. Poiché l’adesione polaroid che molti vivono rispetto alla Meloni mostra innanzitutto qualcosa di geneticamente “familiare”, come fosse, metti, una sorta di “cognata” del teatro comune piccolo-borghese, quindi della Nazione stessa, di cui fidarsi, nella cui postura da impagabile dirimpettaia riconoscersi. “Bello, ‘sto taglio di capelli che ti sei fatta!” “Sì, ti piace? Se vuoi ti do l’indirizzo, vai pure a nome mio”.

Sembra quasi che in lei, così come si è appena mostrata sotto il logo anodino di una manifestazione comunque identitaria, sebbene simile a un’etichetta d’acqua minerale, sia assente ogni sovrastruttura. Esatto: la percezione d’avere davanti agli occhi nient’altro che “Giorgia” surclassa l’idea stessa che si tratti invece della presidente del Consiglio, dunque di chi, per ragioni di ruolo apicale, sia in obbligo rispetto al semplice “cittadino” di dare risposte su bisogni concreti – case, scuole, ospedali, diritti di cittadinanza – e forse anche, perché no, sogni e chiarezza sulla politica estera, possibilmente lontano dalla tracotanza di un Trump; e magari risparmiando l’accusa di “rosicare” da lei rivolta a chiunque ne metta in discussione l’operato. Se qualsiasi volto pubblico di un’ipotetica Sinistra suggerisce, per il fatto stesso d’esistere nel mondo delle proposte politiche, il tema dell’utopia, fosse anche ottenere gli arretrati da lungo tempo attesi, al contrario Giorgia Meloni non sembra avere alcun obbligo nei confronti delle altrui aspettative. Il suo populismo rionale mostra infatti qualcosa di autosufficiente, quasi che basti a sé stesso, così da blandire l’elettore medio rispetto, direbbe Ennio Flaiano, alle sue piccine aspirazioni: esaltarne gli odi, rassicurare rispetto al proprio senso di inferiorità. “Sempre pronto a indicare negli ‘altri’ le cause della sua impotenza o sconfitta”.

Illusorio dunque ritenere che il carico pendente di post-fascismo presente come un’ombra in ogni suo gesto possa essere ritenuto invalidante rispetto alla capacità mimetica di attirare consensi. Si dimentica infatti che il fascismo appartiene al sentire profondo di un paese che non ha mai saputo mostrare discontinuità circa la memoria e il peso familiari, quasi esistesse un Edipo nero impossibile da tradire, un legittimo incesto destinato a innalzare il principio d’autorità. Se infatti per alcuni il cosiddetto “patriarcato” appare un peso inaccettabile, per altri la sagoma stessa non meno patriarcale di Mussolini – il “Duce” – rimane lì presente come inalienabile ex-voto, fiamma votiva, ossequio al cenotafio familiare e familista.

Nella natura umana correre in soccorso del vincitore è tra le occorrenze più sicure, infatti è solo tempo sprecato fare caso, trovando la cosa moralmente irricevibile, a chi, perfino insospettabile, si è sentito in obbligo di presenziare alla kermesse sotto Castel Sant’Angelo senza timore di mostrarsi comprimario di una servile commedia umana. D’altronde, ugualmente era avvenuto sia nei giorni dell’acme berlusconiana sia in quelli dell’apoteosi renziana: “Atreju” o “Leopolda” l’esito non muta. Idem alle feste nazionali de l’Unità nei giorni dell’Ulivo ora nella sua declinazione prodiana ora sotto il “tallone di ferro” dalemiano. E ancora sotto le cinque stelle di Grillo trasmigrate infine presso l’avvocato Giuseppe Conte.

Agli occhi di molti è infatti inconcepibile non avere prossimità con le piazzole dove si amministrano governo e potere; le riserve morali e politiche non rientrano tra le possibilità. Non esserci viene percepito come una menomazione quasi fisica. A completare il quadro solo in apparenza edificante, le figure che non meno della “titolare” Giorgia costituiscono l’insieme del “presepe familiare”, i consanguinei che consegnano plusvalore narrativo all’intera scena: la “sorella” Arianna, figura accudente e insieme ordinatrice, e ancora, su tutto, la “madre” Anna, forte di una sagoma fisiognomica che la rende prossima a una declinazione della forza al femminile tra Bertolt Brecht di Mutter Courage und ihre Kinder e Sora Lella al seggio elettorale con Mimmo-Carlo Verdone, così nell’ideale patria cristiana riunita nella sua forma più “verace”. Perfino il selfie dove il volpino di Pomerania, pocket dog, impalla la premier diventa un messaggio, un asso rispetto al quale, almeno al momento, nessuna controparte avrà modo di ribattere.