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“Non fatevi chiudere gli occhi, a Gaza è genocidio”, parla la regista Farah Nabulsi

Photo by Marco Alpozzi/Lapresse

Photo by Marco Alpozzi/Lapresse

Dopo il passaggio in anteprima al 43° Torino Film Festival, The Teacher della regista Farah Nabulsi, regista e attivista palestinese con cittadinanza britannica, è finalmente al cinema con Eagle Pictures. Il film racconta un insegnante palestinese (Saleh Bakri) in lotta per conciliare il suo impegno, che mette a rischio la vita, nella resistenza politica, con il sostegno emotivo a uno dei suoi studenti (Muhammad Abed El Rahman) e la possibilità di una nuova relazione sentimentale con una volontaria (Imogen Poots). The Teacher nasce dalle esperienze dirette che la regista, nata e cresciuta nel Regno Unito, ha raccolto durante i suoi viaggi nella Palestina occupata e colonizzata degli ultimi anni ed è stato realizzato prima degli avvenimenti del 7 ottobre, le sue conseguenze e il genocidio in atto. Attraverso la storia personale, quella dei protagonisti del film, Nabulsi racconta chi vive una realtà dove l’ingiustizia e la discriminazione sono sistematiche e istituzionalizzate. Così facendo, la regista prova a spiegare il perché di certe scelte e il contesto crudele in cui vengono fatte.

Dopo tanto viaggiare, finalmente il suo film arriva in Italia dopo l’anteprima al Torino Film festival. Come si sente al riguardo?
Sono davvero entusiasta che The Teacher sia stato presentato al Torino Film Festival, una manifestazione così favolosa e che il film esca in Italia perché, ad essere sincera, la solidarietà che gli italiani hanno mostrato con la Palestina, con i palestinesi, specialmente i palestinesi di Gaza, durante un genocidio di due anni, è stata davvero meravigliosa, specialmente in questi ultimi mesi recenti. Quindi, poter presentare The Teacher proprio in Italia per me è davvero poetico. Ne sono davvero orgogliosa e mi sento privilegiata.

Il Torino Film festival è sempre stato molto politico e nasce, in più, come festival per i giovani. Sono loro il più importante pubblico di questo film.
Sono assolutamente d’accordo. The Teacher poi riguarda proprio un insegnante palestinese che cerca di guidare i giovani. Cerca di guidare il suo studente più promettente. E quindi penso che ci sia sicuramente un parallelismo. Sono i giovani il nostro futuro. E anche quando si parla della lotta per la liberazione e la libertà in Palestina e persino nel resto del mondo, è per i giovani.

Si può dire che The Teacher è anche un film sul cercare di vivere in linea con i propri valori mentre si combatte contro il bisogno di vendetta, l’inevitabile rabbia dovuta all’ingiustizia persistente?
Penso che la gente debba vedere il film e sta davvero a ciascuno di loro interpretare ciò che vuole. Per me, questa è in realtà, soprattutto una storia sull’amore di un genitore, su come un genitore ami suo figlio e cosa sarebbe disposto a fare per lui. E in questo caso, sai, Adam diventa come un figlio surrogato per Basem e Basem un padre surrogato per Adam. E ci sono anche altre dimensioni della genitorialità nel film. Quindi, l’amore di un genitore e, davvero, la ricerca di giustizia e cosa può accadere a qualcuno se la giustizia non viene concessa, e per i palestinesi questo è un enorme problema. E sì, c’è questa idea della differenza tra giustizia e vendetta. Ma cosa fai, come nel caso dei palestinesi, quando le persone a cui devi rivolgerti per ottenere giustizia sono le stesse che sono complici del crimine fin dall’inizio? Questo è qualcosa che volevo esplorare e che verrà affrontato in molti modi nel film. E anche davvero l’inevitabilità della resistenza quando non esiste o non rimane nessun altro percorso verso la libertà, l’uguaglianza e la dignità. Direi che questo è un tema o l’elemento principale di cui parla il film. Ma spero anche che offra speranza.

Il film mostra anche la diversa percezione del valore della vita umana, in base all’appartenenza: essere palestinese o essere israeliano. È qualcosa che spesso viene discusso in questo periodo e nel film lo si vede concretamente.
Sì. Una delle cose che mi ha ispirato a scrivere questo film, che si basa anche su eventi reali e simili, è una storia di cui sono venuta a conoscenza durante i miei viaggi in Palestina. È una storia che avevo già sentito prima ancora di diventare una filmmaker, ma poi mi è tornata in mente durante i miei viaggi come regista. Riguarda un soldato dell’occupazione che fu catturato nel 2006, un soldato israeliano, e che fu rilasciato nel 2011 in cambio di oltre mille prigionieri politici palestinesi, centinaia dei quali erano donne e bambini, e centinaia dei quali venivano trattenuti in detenzione amministrativa, cioè senza processo o accusa. E ho pensato che fosse un’incredibile sproporzione nel valore attribuito alla vita umana. Ma naturalmente sto parlando di una storia del 2011, e ho scritto questo film circa cinque anni fa, o almeno la prima bozza. Ed è pazzesco per me pensare che questa sproporzione nel valore della vita umana sia stata amplificata enormemente, esponenzialmente. Abbiamo assistito a decine e decine di migliaia di palestinesi, uomini, donne, bambini, neonati, anziani, malati uccisi a Gaza. E in qualche modo questo viene considerato o presentato come una sorta di rappresaglia per il 7 ottobre, questa sproporzione, anche quando parliamo di 2 milioni di palestinesi sfollati, centinaia di migliaia di feriti, ferite che cambiano la vita. I numeri sono folli. E pensi davvero che il valore, o meglio l’estrema disumanizzazione che è stata inflitta ai palestinesi per decenni, sia ciò che ha reso possibile tutto questo. È culminato in una tale sproporzione e tale disprezzo per la vita umana. Non avrei mai potuto immaginare che quel parallelo nel film che ho scritto cinque anni fa sarebbe stato così amplificato oggi, così sottolineato, ed è davvero orrendo. Veramente orrendo.

Quale pensi sia il ruolo di un regista oggi, specialmente in questo momento in cui tutto sta andando a pezzi?
Credo che sia appropriato citare un artista italiano che ho scoperto circa otto anni fa, nel periodo in cui ho deciso di diventare filmmaker. Finì che lo citai e inserì la sua frase sul sito della mia casa di produzione. Si tratta dell’artista italiano Davide Dormino, che non conoscevo all’epoca ma che, curiosamente, era al festival di Torino con me e quindi finalmente ci siamo incontrati. Lui ha detto: “La vera arte ha sempre avuto un ruolo e una responsabilità nel prendere posizione, perché il ruolo fondamentale dell’artista è aiutare le persone a formare il proprio punto di vista in un modo che ci liberi; altrimenti rimane semplicemente estetica nella sua funzione”. E ci credo davvero. Quella frase risuonò in me otto anni fa e risuona ancora oggi. Quindi, quando parliamo di arte e, in questo caso, specificamente di cinema, per me deve avere quel significato più profondo, quella capacità di liberazione. E la liberazione può significare tante cose: può significare letteralmente la liberazione, come nel caso della Palestina, ma è anche liberazione della mente, del cuore, delle idee, di così tanto altro. Deve liberarci in qualche modo. Ed è questo ciò che significa per me.