Non si capisce bene perché FdI e il centrodestra abbiano deciso di commissionare agli uffici parlamentari studi e proiezioni su tre modelli di legge elettorale, quelli che ieri campeggiavano sulle due principali testate italiane dopo essere passati di mano in mano tra i parlamentari sia di maggioranza che d’opposizione. Quelle dotte ricerche non potevano che confermare quello che era già chiaro a tutti, e cioè che con questa legge elettorale l’attuale maggioranza non ha affatto la vittoria in tasca e che l’esito più probabile delle elezioni è invece un pareggio al Senato.
Per la destra quel pareggio è un incubo ancor più terrificante della sconfitta: la parola passerebbe al presidente della Repubblica, dal cui cilindro uscirebbe qualche sorta di governo tecnico o di unità nazionale o qualche altra formula affine e le probabilità di uno sfaldamento della destra lieviterebbero. Certo non è il solo motivo per cui il pareggio tanto spiace alla destra quanto piace al centrosinistra. Il centrosinistra ritiene di potersi muovere su quel terreno molto meglio della destra, anche se per Elly Schlein non sarebbe una vittoria doversi acconciare ad alleanze spurie che ha giurato di voler d’ora in poi evitare, essendo state invece in passato pratica comune del partito che oggi la stessa Elly dirige. Il Tatarellum, sistema di fatto in vigore per le elezioni regionali, presenta secondo i tecnici del Parlamento gli stessi problemi che erano già palesi per i politici più accorti sia della maggioranza che dell’opposizione. Prevede liste del candidato premier lunghe, che la Corte Costituzionale ha già bocciato. Assegna ai partiti minori della coalizione un forte potere di condizionamento. Ma soprattutto è un sistema che fa perno sull’elezione diretta del premier che alle prossime elezioni, salvo miracolose accelerazioni più veloci della luce, non ci sarà.
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Dunque resta il terzo sistema che, guarda caso, è proprio quello sul quale la maggioranza sta già lavorando: proporzionale con premio di maggioranza e indicazione del premier. Questi però sono solo i cardini di una legge che in tutto il resto è ancora in alto mare: nella destra il braccio di ferro sulle preferenze è pienamente in corso e non è affatto chiaro come andrà a finire. L’indicazione del premier è di dubbia praticabilità costituzionale e fortemente invisa a Fi e Lega, i cui serbatoi di consenso verrebbero vampirizzati dalla lista della candidata indicata, che sarebbe giocoforza la leader di FdI. La costituzionalità del premio di maggioranza immaginato dal 40 al 55% è molto incerta, avendo la Corte già sentenziato contro premi sproporzionati e spropositati.
Ma soprattutto la legge vagheggiata a palazzo Chigi rischia fortissimamente di sbattere sullo stesso muro contro il quale si sfracellò nel 2005 la legge elettorale di Roberto Calderoli, uscendo dall’incidente trasformata, a detta del medesimo Calderoli, in “una porcata”. O più precisamente nel Porcellum. Quel muro è l’obbligo costituzionale di eleggere il Senato su base regionale. Il premio nazionale fu bocciato nel 2005 dal presidente Ciampi, Carta alla mano, e lo sarebbe di nuovo. Certo, le teste d’uovo del centrodestra, ma non è che ce ne siano molte, stanno dandoci sotto per trovare qualche sentiero che aggiri l’ostacolo. Impresa però molto difficile, forse proprio impossibile. Con i premi di maggioranza su base regionale la vittoria, se il centrosinistra si presenterà davvero unito e dunque in sostanziale parità con la destra stando ai sondaggi, è contendibile e il pareggio al Senato appena un po’ meno probabile. La soluzione, da quel punto di vista, sarebbe eliminare l’anomalia delle due Camere con funzioni identiche ma elette con criteri diversi ma dopo la mazzata presa da Renzi nel referendum, quando provò a eliminare il Senato, nessuno se la è sentita di provarci di nuovo.
Ma il pareggio è appunto uno spettro tanto per l’intera destra quanto per l’attuale leadership del Pd. Confligge infatti con l’intera visione dell’identità netta del Pd e della articolazione del sistema sul confronto tra opzioni chiaramente alternative che persegue Schlein. Su quella base la cosa migliore sarebbe di conseguenza concordare una legge elettorale non modellata sulla convenienza della maggioranza, non pensata per evitare che qualcuno vinca, non imposta da chi governa e non denunciata come un golpe da chi si oppone. Quel dialogo, prima delle regionali, era in corso, sia pur con massima discrezione. Si è arenato quando le urne hanno aperto a tutti gli occhi su a chi convenga cambiare legge elettorale e a chi mantenere il Rosatellum. Ma passate le reazioni a botta calda gli estremi per cercare un’intesa ci sarebbero ancora.